Home » Attualità » Politica » Sul nuovo presidente Usa la spada di Damocle della Giustizia

Sul nuovo presidente Usa la spada di Damocle della Giustizia

Sul nuovo presidente Usa la spada di Damocle della Giustizia

La procura del Delaware indaga su Hunter Biden. Il dato politico pesa. Non soltanto perché suo figlio ha intrattenuto conclamati legami con società riconducibili al governo cinese, ma anche perché – già negli anni come numero due alla Casa Bianca – si sono verificati episodi che gettano capo della Casa Bianca in pectore fondati sospetti di conflitto di interessi. L’eletto dem rischia infatti di trovarsi in un dilemma spinoso. Se il futuro segretario di Stato alla Giustizia bloccasse l’indagine sul figlio, si attirerebbe le accuse di abuso di potere; se, al contrario, lasciasse correre, si ritroverebbe a dover fronteggiare una vera e propria “mina vagante”. Situazioni non nuove in America. Nel 1997 il Chinagate di Clinton e le accuse di Mitrokhin nel 1984.


La politica americana si sta sempre più trovando in qualche modo influenzata da vicende di natura giudiziaria: vicende connesse ad accuse di interferenze elettorali straniere o ad opachi legami d’affari con Stati esteri. Il caso più recente è quello che riguarda il figlio di Joe Biden, Hunter, che si trova al momento sotto inchiesta da parte della procura federale del Delaware per questioni fiscali e – stando a quanto riferito dalla Cnn – per i suoi poco chiari affari all’estero (soprattutto in Cina). Affari che, nei mesi scorsi, erano d’altronde stati oggetto di inchieste giornalistiche del New York Post e di un rapporto, redatto dai senatori repubblicani Ron Johnson e Chuck Grassley. In particolare, a finire nel mirino sono state le relazioni affaristiche intrattenute in passato da Hunter con Ye Jianming: controverso businessman cinese che, prima di cadere in disgrazia per accuse di corruzione, guidava la società energetica Cefc e vantava saldi legami con le alte sfere dell’Esercito Popolare di Liberazione. Tra l’altro, nel corso delle ultime settimane, sono state pubblicate email del 2017 che hanno evidenziato le connessioni dell’intera famiglia Biden con Jianming. Senza poi trascurare che a un socio di quest’ultimo, Patrick Ho, sia stata confermata – appena pochi giorni fa – una condanna per corruzione da una corte d’appello di New York. Quello stesso Ho che, secondo quanto riferito a luglio 2019 dal New Yorker, Hunter aveva accettato di rappresentare legalmente nel 2017.

Ora, va senza dubbio sottolineato che la responsabilità penale sia personale e che Joe Biden non risulti oggetto dell’inchiesta della procura del Delaware. Il dato politico tuttavia pesa. Non soltanto perché suo figlio ha intrattenuto conclamati legami con società riconducibili al governo cinese, ma anche perché – già negli anni come numero due alla Casa Bianca – si sono verificati episodi che gettano sull’attuale presidente in pectore fondati sospetti di conflitto di interessi. Nel 2016, Biden esercitò pressioni per far silurare il procuratore ucraino che stava indagando per corruzione su una società, Burisma Holdings, a cui vertici sedeva proprio Hunter. Quello stesso Hunter che, nel 2013, si era recato col padre a Pechino nel corso di una visita ufficiale, ottenendo – guarda caso – qualche giorno dal governo cinese la licenza commerciale per una società che aveva contribuito a fondare. È alla luce di tutto questo che, per Joe Biden, si prospettano degli imbarazzi politici. Del resto, il fatto che il presidente eletto stia impiegando moltissimo tempo per scegliere il proprio ministro della Giustizia dimostra questo stato di cose: Biden rischia infatti di trovarsi in un dilemma spinoso. Se bloccasse l’indagine sul figlio, si attirerebbe le accuse di abuso di potere; se, al contrario, lasciasse correre, si ritroverebbe a dover fronteggiare una vera e propria “mina vagante” nel corso della sua presidenza. Una situazione aggravata dal fatto che, a ottobre scorso, l’ormai ex ministro della Giustizia, William Barr, ha promosso John Durham (attualmente al lavoro sulla controinchiesta riguardante il caso Russagate) a “procuratore speciale”, ampliando così i suoi poteri e rendendolo più difficilmente licenziabile.

Insomma, Biden rischia – pur mutatis mutandis – di ritrovarsi sospese sulla testa delle spade di Damocle non poi così dissimili da quelle che hanno perseguitato Donald Trump ai tempi dell’indagine di Robert Mueller. Ricordiamo che, durante i primi anni di mandato, i democratici abbiano ripetutamente delegittimato la vittoria elettorale dell’attuale presidente, sostenendo che fosse frutto di un complotto ordito in concomitanza con il Cremlino. Peccato per loro che l’indagine di Mueller si sia in larga parte conclusa in un nulla di fatto. Il procuratore ha stabilito vi siano state, sì, delle interferenze russe attraverso i social network e WikiLeaks. Tuttavia non è riuscito a dimostrare l’esistenza di uno sforzo coordinato tra il comitato elettorale di Trump e Mosca. Così come non è stato in grado di provare al di là di ogni ragionevole dubbio che l’attuale inquilino della Casa Bianca si fosse macchiato di ostruzione alla giustizia. Eppure l’indagine di Mueller (durata da maggio 2017 a marzo 2019) costituì una straordinaria arma nelle mani degli avversari (non solo democratici) di Trump, per coartarne la politica estera. Non trascuriamo infatti che buona parte dell’establishment bipartisan di Washington non vedesse affatto di buon occhio la distensione che il presidente americano perseguiva nei confronti della Russia. E, in questo senso, il Russiagate ha funzionato efficacemente come arma di pressione per far deragliare il disgelo. D’altronde, è sempre nel tentativo di mettere i bastoni tra le ruote alla distensione con Mosca che gli avversari del presidente hanno sottoposto quest’ultimo a un processo di impeachment nel 2019: processo che di fatto paralizzò pressoché del tutto l’attività parlamentare per quasi sei mesi. Tutto questo, nonostante le prove di colpevolezza risultassero traballanti e – anche qualora fossero state dimostrate – probabilmente non meritevoli di un processo di messa in stato d’accusa. Anche in questo caso, tuttavia, l’obiettivo politico è stato pienamente raggiunto. Gli avversari del presidente hanno reso ancor più problematico il dialogo tra Washington e Mosca. E bloccando di fatto le attività parlamentari sono riusciti ad impedire che Trump potesse portare avanti la propria agenda programmatica, contribuendo così ad azzopparlo in vista delle elezioni dello scorso novembre.

Come è chiaro, le accuse di interferenze straniere sono entrate a far parte di quella delegittimazione reciproca che i protagonisti dell’agone politico americano utilizzano per cercare di mettere fuori gioco i propri avversari. Eppure il tema delle indebite influenze estere non è del tutto nuovo nella storia americana. Ricordiamo, per esempio, quello che venne definito il Chinagate. Era il febbraio 1997 quando il Washington Post riportò che “rappresentanti della Repubblica popolare cinese” avessero cercato di trasmettere contributi illegali al comitato nazionale del Partito Democratico, nel corso della campagna per la rielezione di Bill Clinton nel 1996. In particolare, secondo il quotidiano, un ruolo significativo sarebbe stato svolto dall’ambasciata cinese a Washington. Ne sorsero polemiche e, da più parti, fu chiesto di nominare un procuratore speciale che indagasse sulla questione. Ciononostante, nel dicembre 1997, l’allora ministro della Giustizia, Janet Reno, si rifiutò di seguire questa strada. Ma non è tutto. Perché, nel maggio 2019, il New Yorker ha riportato che – secondo l’agente del Kgb Vasili Mitrokhin – durante la campagna per le presidenziali americane del 1984 l’Unione Sovietica avrebbe cercato di condurre delle infiltrazioni nei comitati nazionali del Partito Democratico e del Partito Repubblicano per screditare l’allora presidente americano, Ronald Reagan. Un tentativo che sarebbe tuttavia miseramente fallito, vista la riconferma trionfale che il repubblicano ottenne quell’anno.

© Riproduzione Riservata