La scelta dell’Ue di vietare dal 2035 le auto tradizionali è destinata a provocare uno shock economico fortissimo. La transizione ecologica non è «un pasto gratis»: l’Italia dovrebbe raddoppiare la sua produzione di energia, moltiplicando in dieci anni del 600% quella da fonti rinnovabili. In più, perderebbe moltissimi posti di lavoro in settori d’eccellenza e creerebbe ulteriori problemi ambientali proprio a causa delle batterie esauste.
Se ne sentiva la mancanza: il refrain del «continental correct» è tornato, perché ce lo chiede l’Europa. Di cosa si tratta? Ma di togliere dalla bolletta elettrica – era una pensata di Matteo Renzi – il pagamento del canone televisivo perché appunto Bruxelles non vuole che vi siano «oneri impropri». Con l’energia che rincara a doppia cifra (di recente abbiano scontato aumenti del 9,9% per la luce e del 15,3% per il gas), tutto fa per dare l’illusione che la transizione ecologica sia un pasto gratis. Invece è un conto salatissimo. Come quella voce che si chiama «onere di sistemi A-3», cioè gli incentivi alle energie rinnovabili, che ci costano attorno ai 13 miliardi di euro all’anno.
Da qui in avanti, poi, di energia ce ne servirà tantissima. Perché, e stavolta ce lo impone l’Europa, tra dieci anni tutti a batteria. Ha spiegato la presidente della Commissione Ursula von der Leyen che lo facciamo per il nostro bene e per quello della Terra di mandare in soffitta le auto a motore endotermico, perdendo per strada qualche milione di posti di lavoro; crescerà così la finanza verde (altra speculazione), i cittadini pagheranno molto di più l’energia e le tasse «green» in attesa della pianeta pulito.
Viene da chiedersi se un impegno così importante e imponente sia supportato da altrettanta coerenza, o se non ci avviamo verso un elettrocrack che per le finanze delle famiglie potrebbe essere un elettroshock. Compulsando l’Energy policy tracker, il data base mondiale che immagazzina i dati riguardanti appunto l’energia, si ricava che i Paesi del G-20 hanno investito nel 2020 più soldi nel petrolio che nelle rinnovabili (160 miliardi di dollari contro i 123).
Sono proprio i 19 Stati dell’euro a pianificare maggiore spesa nei fossili e nel nucleare, tant’è che il report sottolinea: «I governi stanno investendo per l’elettrificazione dei trasporti invece che per aumentare la capacità di energia rinnovabile necessaria a produrre l’energia per questa elettrificazione». Siamo di fronte a una gigantesca operazione di «greenwashing», di ottimo marketing ecologico? Potrebbe essere, visto che l’Europa si preoccupa solo dei gas serra ma non delle scorie prodotte per raggiungere tale risultato. La Francia continua a puntare sul nucleare e nel suo Next Generation Ue approvato da Bruxelles ce n’è molto.
L’Europa tutta continua a dotarsi di pannelli solari, ma una volta esaurita la loro capacità non si sa che farsene. E lo stesso vale per le batterie dei veicoli elettrici. Sono riciclati per la metà dei componenti (una batteria dura al massimo otto anni o 160.000 chilometri, costa un occhio e pesa almeno mezza tonnellata); lo fanno correttamente solo in Germania e dove finisce il resto nessuno può dirlo.
Procedendo a qualche calcolo, alcuni legittimi dubbi sorgono. Nel nostro Paese circolano più o meno 52 milioni di veicoli. Considerando una media di 20 kilowatt/ora per far percorrere 100 chilometri a tutti questi veicoli, avremmo bisogno di 360 miliardi di kilowatt/ora all’anno. L’Italia intera in un anno consuma all’incirca 325 miliardi di kilowatt/ora. Per intenderci: una famiglia media consuma in un anno 2.700 kilowatt/ora: se li traducessimo in chilometri di una «500» elettrica, corrispondono a 19.200 chilometri. Gli italiani coprono mediamente in auto 11.200 chilometri. Per alimentare la scelta della trazione esclusivamente elettrica si dovrebbe raddoppiare la produzione di energia.
Ancora: le rinnovabili da qui al 2030 dovrebbero fornirci circa il 600% in più dei 112 miliardi di kilowatt/ora attuali. Ma per adesso, anno su anno, crescono dell’1,3 per cento. Il nostro ministro per la Transizione ecologica Roberto Cingolani ha osato dire: bisogna fare le cose col tempo necessario e magari rilanciare gli incentivi per le auto meno inquinanti, anche quelle diesel per coprire la transizione. Ma qui viene spontanea una domanda: se compro un’auto a motore endotermico e poi, dal 2035 non la posso più usare o rivendere, mi conviene l’investimento?
L’obiezione riguarda anche i modelli ibridi e i «plug-in» con ridotta autonomia elettrica (circa 50 chilometri) e che si muovono comunque grazie a un motore endotermico. A riportarci con i piedi per terra ci hanno pensato due tedeschi di una certa importanza: Volkmar Denner e Franz Fehrenbach, rispettivamente amministratore delegato e presidente di Bosch, leader mondiale delle batterie e componentistica per i veicoli. Denner contesta all’Ue la scelta di «di aver puntato solo all’elettrico trascurando altre possibilità: i biocombustibili e l’idrogeno».
Franz Fehrenbach, presidente di Bosch aggiunge: «Tutti sanno che nemmeno le auto elettriche, se ricaricate con il mix energetico tedesco ed europeo, sono climaticamente neutre. In più le celle delle batterie, produzione altamente energivora, provengono principalmente dall’Asia dove una quota molto elevata di elettricità è ancora prodotta da centrali a carbone. Infine, va detto che mancano le ricariche». Con l’autorità che gli deriva dal guidare il primo gruppo mondiale del settore (i tedeschi si buttano sull’elettrico, perché sorpassati dai giapponesi sia per numero di veicoli venduti sia per redditività), Akio Toyoda ha sentenziato: «L’auto elettrica non reggerà per mancanza di energia e l’attuale modello di business dell’industria automobilistica collasserà, con la perdita di milioni di posti di lavoro. Inoltre, c’è il rischio che l’automobile diventi un bene di lusso destinato a pochi».
Su questo la Corte dei conti europea ha bacchettato Ursula von der Leyen dicendo: «Non centreremo gli obiettivi di riduzione delle emissioni perché mancano le colonnine di ricarica: entro il 2025 ne servono un milione, ne andrebbero installate 3.000 a settimana, ne abbiamo meno di 100». Nonostante ciò la presidente della Commissione vuole arrivare a 30 milioni di veicoli elettrici tra otto anni, ora siamo a due milioni. È giusto chiedersi perché e quali conseguenze avrà tutto questo. La risposta sembra scontata: la Cdu – il primo partito della Germania a cui lei appartiene – non vuole consegnare il Paese in mano ai Verdi e i tedeschi vogliono riconvertire la loro industria a spese degli altri, tant’è che il gruppo automobilistico più agguerrito sull’elettrico è la Volkswagen che sposta produzioni in Cina. I vertici dell’azienda fanno sapere che per costruire un’auto «verde» serve il 30% in meno di pezzi e di ore di lavoro.
Deutsche Bank ha stimato in Germania 830 mila disoccupati nel settore auto, ma in Italia potrebbe percentualmente andare peggio. Siamo i principali fornitori di componenti, ma quasi tutti con l’opzione elettrica spariranno. Persino pneumatici e cerchioni saranno diversi e se qualcuno si chiede perché i 420 operai della Gkn di Firenze vengono mandati a casa la spiegazione è dura e semplice: bisogna cambiare i prodotti per adeguarli ai nuovi veicoli e conviene farlo dove il lavoro costa meno. Così perdono il posto i 152 della Giannetti Ruote di Ceriano Laghetto, i 106 della Timken di Brescia, ma sono solo «avanguardie».
Gli occupati a rischio sono almeno 110.000, a cui vanno aggiunti quelli degli stabilimenti dove ora il gruppo Stellantis (ex Fca) produce i motori. Se Termoli si salva è perché diventerà una fabbrica per le batterie; invece per Pratola Serra (Avellino) e Cento (Ferrara) è buio pesto. Lo stesso ministro Cingolani nutre timori per la Motor Valley: quella «zolla d’Emilia» dove si concentrano Ferrari, Maserati, Lamborghini, Pagani, Dallara che vale 16.000 occupati e 22 miliardi di euro come fatturato. Cosa significa tutto ciò cominciano a scoprirlo a Torino. Il premier Mario Draghi ha chiesto – dopo la sua visita in città – al ministro per lo Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti di accendere un faro sull’ex metropoli-fabbrica oggi in fortissima crisi economica.
Torino, però, si vanta di avere inaugurato a spese del Comune la rete del car sharing con auto elettriche. Sarà un caso, ma il capoluogo piemontese ha acquistato i primi autobus elettrici. Nati in Fiat? No. A tutto il mondo vende questi veicoli il colosso cinese Byd (50.000 in un anno). La Tesla di Elon Musk è nulla a confronto di un tale marchio (Byd ci ha venduto pure le mascherine anti-Covid), che magari le batterie le produce con l’energia ricavata dal carbone e le alimenta con il cobalto delle miniere dove si sfruttano i bambini congolesi. Ma questi sono accettabili effetti collaterali.
