Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da una guerra culturale tra destra e sinistra. Dopo la crisi finanziaria del 2008 paradossalmente l’economia è passata in secondo piano. L’inflazione, la crisi energetica, il problema delle materie prime, la politiche green, la guerra riportano con prepotenza la questione economica al centro dell’agenda politica.
Gli ultimi anni sono stati caratterizzati da una guerra culturale tra destra e sinistra. Dopo la crisi finanziaria del 2008 paradossalmente l’economia è passata in secondo piano. Quella crisi è stata risolta dalle banche centrali e dalle istituzioni internazionali riducendo lo spazio di azione degli Stati. La nuova politica ha così intercettato il malessere sociale attraverso altri schemi: battaglie d’identità e culturali sia a destra che a sinistra. A destra si è puntato sul contrasto all’immigrazione e la difesa della nazione e della tradizione, a sinistra su forme sempre più ampie di liberazione dell’individuo attraverso i cosiddetti diritti civili, la tutela delle minoranze e la militarizzazione del linguaggio politicamente corretta. Nei rivolgimenti degli ultimi due anni questa era di guerra culturale sembra trovare la sua conclusione. L’inflazione, la crisi energetica, il problema delle materie prime, la politiche green, la guerra riportano con prepotenza la questione economica al centro dell’agenda politica. Ciò non tanto perché in Europa i governi nazionali abbiano riguadagnato sovranità, ma perché la struttura sovranazionale non può da sola fronteggiare una situazione di tale gravità. Le magie monetarie non possono risolvere problemi strutturali, serve la cooperazione dei governi. Dunque le strategie economiche diventeranno fondamentali per convincere elettori preoccupati dall’inflazione e sfiancati dalla penuria di opportunità. Allo stesso modo, la nuova polarizzazione geopolitica richiede di scegliere con nettezza un’area, un mercato di riferimento e di controllare gli investimenti esteri. I partiti italiani però sembrano ancora non averlo capito forse perché essi vengono da un anno e mezzo di auto commissariamento. Il Pd ne è l’esempio più preclaro: invocare l’agenda Draghi significa non avere una propria visione economica, ma rimettersi ciò che è stato fatto e si sarebbe dovuto fare nei prossimi sei mesi (non sei anni). Troppo poco. È come dire che va bene se il programma di un partito venga scritto da altri che di quel partito non fanno parte. Inoltre, agitare lo spettro del fascismo non risponderà a chi ha problemi con le bollette e i salari bassi. Anche a destra, tuttavia, c’è poco. Forza Italia ha oramai rinunciato alla proposta di liberalizzazione dell’economia in favore della spesa pensionistica e dei bonus, mentre la Lega è ancora ferma alle proposte del 2018, dopo aver governato tre anni su quattro e mezzo in questa legislatura, tra quota 100 e flat tax. Ma ancora più nebulosa è la proposta economica di Fratelli d’Italia. Giorgia Meloni ha puntato tutto sulla tradizione, sul conservatorismo, e su una proposta law and order. Efficace per il consenso, ma poi ci sarà eventualmente da governare in uno scenario economico preoccupante. C’è da capire cosa fare con il caro vita, quali proposte portare avanti nella politica economica europea, verso quale fisco e mercato del lavoro andare, come tutelare le imprese in uno scenario di deglobalizzazione, come trasformare il risparmio in investimenti. Al momento su questi punti la proposta della destra, che nel caso di Fratelli d’Italia non ha mai governato, è troppo vaga o comunque non è emerge dalla comunicazione. Le spinte per delegittimare la destra italiana saranno forti sia sul fronte interno che su quello estero. Per questo è bene superare i vecchi topoi, afferrare che siamo entrati velocemente in una nuova fase e che i bisogni e le emergenze ruotano sempre di più intorno all’economia. Chi lo capisce per primo vince.
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