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Vittore Grubicy de Dragon, in bilico tra due mondi

Vittore Grubicy de Dragon, in bilico tra due mondi

All’inizio del Novecento, l’artista viveva il contraddittorio rapporto con la tradizione e la tensione per le avanguardie, a cominciare dal futurismo. Un libro di prossima uscita a cura di Alessandro Tiddia ne racconta i percorsi.


Personalità complessa, Vittore Grubicy de Dragon, pittore e amico di pittori, nato nel 1851 e scomparso nel 1920, fu sostenuto da un’ansia pedagogica che si misura nelle testimonianze dei suoi allievi che, nello spirito di Leonardo, ne hanno concepito partecipi ritratti: Romolo Romani, Arrigo Minerbi, Adolfo Wildt, Astolfo De Maria. Acutamente Alessandra Tiddia, davanti a queste formidabili interpretazioni, ne individua gli archetipi dichiarati nell’autoritratto di Leonardo da Vinci e nel San Girolamo di Albrecht Dürer.

L’archivio del Novecento del Mart – il Museo di arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto – conserva fotografie in posa di Grubicy che, nell’attitudine meditativa, prefigurano la declinazione agiografica degli allievi. Formidabile e ieratica è l’interpretazione di Adolfo Wildt, che raffigura Grubicy «immobile e frontale, il capo coperto da una benda sacerdotale, come un maestro, un officiante del culto dell’arte, una sorta di deus ex machina arcaico, silente e chiuso in sé, in un raccoglimento pensoso e chiuso ai rumori esterni» come scrive Giorgio Nicodemi.

Ed è tanto più rivelatore il formidabile ritratto che ce ne consegna Astolfo de Maria. Un’immagine convincente e viva che arde negli occhi elettrici: «Quegli occhi hanno guardato anche me in fondo all’anima, e non li potrò dimenticare. Sono una visione; e tutta l’opera è una visione di tempesta, dominata dal canto di quello sguardo» scrive Angelo Conti, il filosofo dell’arte ed esteta amico di Gabriele D’Annunzio. Con questo spirito, Grubicy fu un interlocutore privilegiato per i futuristi che ne avvertivano la diversità del gusto, ma anche la grande curiosità e onestà di giudizio.

Nel notevole saggio di Nicolo D’Agati questa dialettica è minuziosamente argomentata, tra concessioni e riserve. In Grubicy c’è disponibilità e intransigenza. Capisce l’autentica tensione di Umberto Boccioni, di cui visita lo studio il 27 luglio 1910, ma gli erano più affini ribelli come Romolo Romani e Aroldo Bonzagni. E tanto più lo sforzo di comprensione di Grubicy era rispettato quanto più il suo gusto era predisposto, per affinnità, solo verso «gli artisti visionari, gli artisti dimentichi del mondo nel rapimento delle loro allucinazioni, un’arte intesa come ascetica fuga mundi».

Quanto questo gusto influenzasse le scelte degli artisti possiamo capire dalla sue riserve cariche di aspettative sui futuristi. È, d’altra parte, lo stesso giudizio di Ardengo Soffici sulla rivista La Voce: «C’è qualcosa nel modo di fare di Filippo Tommaso Marinetti per i suoi colleghi che mi ripugna assolutamente… ed è quella voglia di reclamismo americano che fa ballare questi poeti, questi pittori, come pagliacci impiastricciati di biacca e di minio, davanti a un pubblico sbalordito […] A me pare, in sostanza, che la loro smania di novità e di modernità sia piuttosto un atteggiamento esteriore che un bisogno profondo del loro spirito ansioso d’incarnarsi in creazioni originali».

Siamo nel 1910, e Grubicy riconosce comunque il valore di Umberto Boccioni osservando in un dipinto come Controluce, conservato al Mart, la tendenza «verso la smaterializzazione dei corpi e il suo reciproco, cioè la materializzazione della luce». Ed è assai nobile che, nonostante le sue riserve quando viene nominato nella commissione per le selezioni della Biennale di quel cruciale 1910, l’anno del manifesto dei pittori futuristi, firmato in quel momento da Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Luigi Russolo, Aroldo Bonzagni, Romolo Romani (gli ultimi due ben presto recedenti) dichiari: «Non tollererò il linciaggio di nessun nuovo valore – anche se incompleto».

È un momento cruciale, il passaggio da un’epoca all’altra, ed è importante lo sforzo di Grubicy per capire. Ma, tra la sua cultura, il mondo simbolista al quale appartiene, la sicura intuizione del valore di Romolo Romani, troppo lo separava dalla effrazione delle regole dei futuristi. L’importante ricerca del Mart, nella prospettiva di una mostra che evidenzi il ruolo e l’autorevolezza di Grubicy, tra Divisionismo e Futurismo, ci propone una quantità di contrasti propri di un passaggio d’epoca al quale Grubicy non si rassegna. A riprova della modernità, dell’apertura al futuro riconosciuta dai futuristi a Medardo Rosso, ci sono le riserve di Grubicy.

Anche questo è un punto di rottura significativo, tra il gusto di Grubicy e gli artisti d’avanguardia. Scrive Patrizia Regorda: «Il disaccordo con Soffici a proposito di Rosso è importante per Vittore, ed è significativo invece che il sostegno del fiorentino nei confronti dello scultore sia uno dei primi punti di concordia con i futuristi, che nel maggio 1910 gli inviano appunto un telegramma per esprimere fraterna ammirazione per la “vostra coraggiosa campagna per grande Medardo e per risveglio arte italiana” Soffici risponde a mezzo stampa esprimendo sostegno per la “gioventù rivoluzionaria, infiammata d’odio contro il dispotismo del passato”».

Inevitabili quindi da parte di Grubicy le stroncature dei manifesti futuristi mentre attende l’acquisto da parte della Galleria nazionale di Roma del suo trittico Inverno in montagna. Così come nel 1911, per marcare le distanze, Grubicy inventerà Arte libera, con relativo manifesto Artisti d’Italia. Grubicy sta tentando di contrastare i futuristi, non con le parole ma con le opere di altri artisti scelti, oltre che fra quelli noti, anche fra fanciulli, operai, dilettanti.

L’intelligenza di Grubicy è nell’inglobare in Arte libera i futuristi Boccioni, Carrà, Russolo. D’altra parte, per lui c’è sempre l’onore delle armi. Ma non sempre il rispetto, la riconoscenza e la benevolenza ripagavano dell’impegno e dell’equilibrio Grubicy, sospeso fra due mondi. Alla sua mostra milanese Arte libera, i due estremi stavano «nell’eccesso futurista costituito dal triumvirato BoccioniRussoloCarrà» e nel «quadretto che sa di fiammingo, Ore calde di Marius Pictor».

Contro la «dorata intonazione olandese», osserva Isabella Collavizza, «della pittura di de Maria si scagliava anche Ardengo Soffici, riferendo sulla decadenza dell’arte coeva, con l’accusa diretta al pittore di essere portavoce di una “romanticheria senza midollo”. Alla portata innovativa della trinità ribelle della nuova scuola futurista si contrapponeva, dunque, la pittura, dai “concettucci fritti e rifritti”, del gruppo guidato dal pittore e gallerista Vittore Grubicy de Dragon che per l’occasione riuniva, tra gli altri, Serafino Macchiati, Benvenuto Benvenuti, Baldassare Longoni, Ugo Bernasconi e de Maria».

L’archivio Grubicy al Mart dà conto di passioni, tensioni, schieramenti, tra le posizioni d’avanguardia e la lunga, paziente, esperienza di Grubicy sulla quale confida, con estrema convinzione, Mario de Maria, attivo nel rifugio veneziano della casa dei Tre Oci. Conclude Isabella Collavizza: «Pur nella tormentata evoluzione della sua pittura, de Maria rimarrà fedele al condiviso concetto di arte come espressione di un’idea, di un’intuizione artistica, che si esprime attraverso la tecnica. Con un inno alla verità, sincero con se stesso e verso le sue opere, svestite dalle “stoffe appariscenti” avanguardiste, Marius Pictor replicava in merito alla più recente svolta drammatica della sua pittura alle perplessità avanzate dai suoi fidati amici Vittore Grubicy e Ugo Ojetti, ospiti della sua dimora veneziana, in un tardo pomeriggio estivo del 1909: “Sono mutato? Che importa? Dentro sono lo stesso. E in arte è il cuore che conta, non l’apparenza”».

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