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La stampella della Repubblica, un po’ di qua e un po’ di la

Nonostante lo scarso risultato elettorale, un gongolante Matteo Renzi si sta candidando a figura indispensabile, sostenendo ora la sinistra, ora il governo (soprattutto). Ma sempre pronto a riservare sgradite sorprese. Un copione su cui il suo alleato Calenda però non concorda…


«Se la presidente Meloni farà bene, saremo contenti». L’estroso Matteo Renzi, con il pretesto della pacificazione nazionale, ha inaugurato la legislatura osando laddove nessuno s’era mai spinto: metà opposizione, metà maggioranza. È evidente la simpatia per il governo: soprattutto verso la premier, Giorgia Meloni. Benissimo allora il ministro della Giustizia, Carlo Nordio: «La scelta migliore». Pregevole la posizione sui rigassificatori: «Pronti a collaborare». Imprescindibili le riforme costituzionali: «Noi ci siamo». Gli addetti al pallottoliere di Fratelli d’Italia gioiscono. A Palazzo Madama i numeri ballano? Le truppe renziane, qualora servisse, non faranno mancare il loro discreto supporto. Com’è già successo, assicurano i meloniani, per l’elezione di Ignazio La Russa alla presidenza del Senato.

Matteo è tornato, più arrembante che mai. Ancora una volta. Con i suoi 15 parlamentari, strappati al magnanimo Carlo Calenda, s’è piazzato in mezzo all’emiciclo. È il pendolo della legislatura. Tic-tac, tic-tac. Un po’ di qua, un po di là. Il Terzo polo, riveduto e corretto. A dispetto della magre percentuali nelle urne, è il momento del leader di Italia Viva.

Lo testimonia pure la favolosa crescita delle donazioni al partito, stagnanti da tempo. Solo tra agosto e settembre 2022, insomma dal patto con Azione alla formazione del governo, sono stati raccolti quasi 1,4 milioni di euro. Donazioni private, versate per lo più da aziende e imprenditori. Il paragone con il passato rende l’idea dello sbalorditivo totale. Nel 2021 erano stati racimolati appena 640 mila euro: meno della metà. L’anno prima, poco di più: 871 mila euro. Insomma: in soli due mesi, nelle casse di Italia Viva, sono entrati i soldi ricevuti in due anni.

Una generosità mai vista, a ridosso delle elezioni. Potrebbe testimoniare quanto il posizionamento politico dell’ex premier sia gradito ai lungimiranti imprenditori. La lista dei benefattori è interminabile. Ben 100 mila euro, per esempio, li ha donati Manfredi Lefebvre d’Ovidio, uomo d’affari monegasco di origine italiana: è presidente ed azionista di minoranza di Silversea Cruises, fondata dal padre e poi venduta a Royal Caribbean per un miliardo di dollari. Il manager Lupo Rattazzi, figlio di Susanna Agnelli e nipote dell’Avvocato, ha versato invece 50 mila euro lo scorso agosto.

La stessa cifra è arrivata dal banchiere Giovanni Tamburi. Emma Marcegaglia, ex presidente di Confindustria, ha contribuito alla causa con 30 mila euro. Altri 25 mila sono giunti da un altro banchiere: Ruggero Magnoni, già numero uno della Lehman Brothers in Italia. Perfino Guido Barilla, presidente della multinazionale alimentare più importante d’Italia, non si è sottratto: 10 mila euro. Altrettanti sono stati concessi dall’imprenditore Marco Bassilichi, nel cda del Monte dei Paschi. Mentre tra gli apporti minori, oltre a quelli degli eletti, vanno ricordati i mille euro donati, in due tranche, dalla mamma di Maria Elena Boschi, Stefania Agresti, assieme al fratello Emanuele.

Totale: 1,4 milioni. Quasi tutti versati appunto da capitani d’industria e professionisti. Nessun partito, nemmeno lontanamente, si avvicina a questa cifra. Avrà influito tale generosità sulla benevolenza verso il governo? La domanda maliziosetta viene in mente dopo il reciproco scambio di accuse tra Benedetto Della Vedova, segretario di +Europa, e Calenda. Erano destinati a maritarsi, in vista delle elezioni. Poi però il fondatore di Azione ha scelto Renzi, nonostante ne avesse detto peste e corna, tipo «il suo modo di fare politica mi fa orrore». Calenda, adesso, spiega il voltafaccia con gli ex radicali: il finanziere George Soros ha sovvenzionato con un milione e mezzo +Europa, assicura, ponendo come condizione imprescindibile la creazione di un listone antifascista. Della Vedova contrattacca: «Forse è lui che fa politica sulla base delle richieste dei suoi finanziatori…». Che, tra l’altro, spesso coincidono con quelli di Renzi.

L’affinità tra Matteo e Giorgia, comunque, prescinde da ogni illazione. Ed è, prima di tutto, sostanziale e generazionale. Sono quasi coetanei. Si sono fatti da soli. Scalando segreterie di partito, sgomitando fin da giovani, esibendo sfrontatezza. Solo che la premier è all’apice. Mentre il suo predecessore, dopo aver toccato vertiginose vette, resta ai minimi storici. Ma Matteo non si perde d’animo. La politica è un saliscendi. E lui spera, grazie alla decomposizione del Pd, di riconquistare elettori. Intanto, si accontenta di passare per il più lesto e scaltro della compagnia.

Riepilogo delle «renzate» precedenti, dunque. Togliere la fiducia al governo Conte, favorendo il messianico arrivo di Mario Draghi. Uscire da trionfatore nella riconferma di Sergio Mattarella al Quirinale. Far fallire il progetto del «campo largo» nel centrosinistra. Agevolare l’improbabile unione con Calenda, ottenendo un insperato numero di seggi. Puntellare la maggioranza sull’elezione di La Russa. Far esplodere, di conseguenza, i berlusconiani. Non rivendicare la genialata, che avrebbe indispettito l’alleato. Fingere piuttosto fedeltà. Ammiccare apertamente a Meloni.

«È stampella della maggioranza» schiuma Enrico Letta, segretario del Pd. Il suo vice, Peppe Provenzano, ruggisce: «Ci vuole distruggere». Ma questo non è certo un mistero: il dileggio quotidiano ha ormai mandato in tilt i dem, appesi al risolutorio congresso da celebrare a marzo 2023. La strategia di Renzi è chiara: spingere il suo ex partito tra le braccia di Giuseppe Conte, insolentendo il massimalismo pentastellato. Resta un voluminoso impedimento: Calenda. Lui non esclude il dialogo con il Nazareno. Ma non è certo l’unica divergenza tra Carlo e Matteo. «Quei due durano poco. Troppo simili…» sussurrano gli sballottati fedelissimi.

Ma l’ex Rottamatore non può permettersi un’altra birichinata delle sue. Non ancora. La lista unica con Azione ha sfiorato l’8 per cento alle politiche. Ma Italia Viva vale meno della metà. E se l’alleato mantiene una parvenza di nuovismo, a lui rimane la fama di inaffidabile volpone. Il migliore nelle trame di palazzo, non certo nelle urne. A dispetto delle manifeste incompatibilità, il tandem deve proseguire. Anche per attrarre, nel corso della legislatura, i malpancisti piddini e soprattutto forzisti, come già successo con le ex ministre Mara Carfagna e Mariastella Gelmini.

Renzi, dunque, spinge per un partito unico in vista delle europee del 2024: dovrebbe chiamarsi Renew Italia, sedicente liberale e riformista, declinazione nazionale del gruppo europeo che a Strasburgo unisce il Terzo polo a Renaissance, del presidente francese Emmanuel Macron. Il 19 novembre, intanto, è prevista l’assemblea nazionale di Azione. Seguirà, qualche giorno dopo, quella di Italia Viva. Dovranno formalizzare la federazione tra i due partiti. Poi, si comincerà a parlare di accordi per le regionali di primavera.

E qui, già, le strategie dei dioscuri centristi divergono significativamente. Nel Lazio, Calenda non esclude di appoggiare Alessio D’Amato, assessore regionale del Pd alla Sanità, già segretario romano dei Comunisti italiani. Soluzione che però non entusiasma Renzi. In Lombardia, invece, la prima scelta resterebbe l’economista Carlo Cottarelli, eletto in parlamento con i dem. Il leader di Italia Viva preferirebbe però puntare su Letizia Moratti, che ha lasciato la vicepresidenza della Regione in polemica con il governatore Attilio Fontana. Sarebbe un’altra renzata. Il Terzo polo mette il cappello su una candidatura competitiva, mentre il Pd si macera di fronte all’angosciante dilemma: perdere a tavolino o turarsi il naso, sostenendo l’ex sindaca di Milano avversata per anni?

Trama ideale, per il ticchettante Matteo. Che, sul proscenio nazionale, farà comunque l’occhiolino a Giorgia. L’ha capito prima degli altri. Il governo potrebbe durare a lungo, vista la brancaleonica opposizione. E lui deve rinascere: Macron all’italiana. Anche se non sarà facile smettere il solito ruolo alla Jep Gambardella. Il protagonista della Grande Bellezza, insomma. Quello che si compiaceva dei suoi controversi intenti: «Io non volevo solo partecipare alle feste. Volevo avere il potere di farle fallire».

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