A Vicenza, l’esposizione incentrata sul pittore Ubaldo Oppi ripercorre i primi decenni del Novecento, attraverso dipinti ma anche sculture e testimonianze di costume. E la figura femminile riconquista tutta la sua importanza.
È probabile che Ubaldo Oppi non sia un grande pittore, e che la mostra a lui dedicata nella Basilica Palladiana di Vicenza «Ritratto di Donna – Il sogno degli anni Venti e lo sguardo di Ubaldo Oppi», non ribalti le gerarchie, non ne rovesci il destino; ma certamente fu un pittore di grande intelligenza.
Il dipinto più importante di quegli anni, una sorta di manifesto della nuova estetica, figurativa e fascista, è In tram di Virgilio Guidi, del 1923, nella cui ritmata compostezza si celebra il «ritorno all’ordine». Il ritratto della moglie a Venezia, La giovane sposa e Le amiche di Ubaldo Oppi, concepite tra il 1921 e il 1924, sono opere capitali per definire un’epoca, un costume, uno stile; e non sono la rappresentazione dell’ideale di donna del Fascismo, ma la sospirata rinascita di un nuovo Rinascimento, tra Agnolo Bronzino e Parmigianino, con una perfezione formale di cui Oppi fu consapevole: «Sono in un periodo felicissimo, sento il disegno e il colore come non mi era mai avvenuto, faccio sogni per l’avvenire».
Per rappresentare questo stato di grazia, la curatrice della mostra, Stefania Portinari, non isola, come icone, i tre dipinti femminili, ma li pone in serrato confronto con i dipinti più belli dell’epoca, di Achille Funi, di Edgardo Sambo (raro triestino, a fianco di Carlo Sbisà), di Tullio Garbari, di Massimo Campigli, di Antonio Donghi, di Amedeo Bocchi, di Felice Carena, di Felice Casorati. Sono tutti autori di capolavori, di intatta, miracolosa bellezza. La sensazione di chi si muove nell’ampio salone palladiano, restituito alla potenza del suo volume, è di pura felicità, in un ritmo serrato che non potrebbe iniziare sotto migliori auspici offrendoci, nel tempo delle più militanti avanguardie, alcuni dei dipinti più preziosi degli inizi del secolo, nella temperie veneziana.
Ti accoglie, all’entrata, la Giuditta di Gustav Klimt del 1909, acquistata nella Biennale del 1910 per il Museo di Ca’ Pesaro. E le fanno corona le opere degli autori che ne trassero immediata ispirazione: Le mille e una notte di Vittorio Zecchin, Il notturno e La preghiera di Felice Casorati, la Piccola russa. Del grande Zecchin è presente anche la Coppa delle vestali, proveniente dal Vittoriale degli italiani, e sigillo di notti amorose con la Marchesa Casati ed Eleonora Duse.
In quel momento giovanile Oppi è potente, antidecorativo, asciutto, come si manifesta nell’Autoritratto o in Femmina rossa (in cui sono evidenti le ascendenze da Gino Rossi e Tullio Garbari). Dopo il primo tempo veneziano, nella suggestione della Secessione viennese, viene avanti con fatica, tra opere capitali del «periodo blu» di Oppi che, a Parigi, era stato l’amante della compagna di Pablo Picasso, Fernande Olivier. A Parigi Ubaldo è chiamato «Antinòus» (Antinoo) perché è un bellissimo giovane, alto, con un viso maschio e un corpo atletico formatosi nell’esercizio di boxe, calcio e nella pratica quotidiana di ginnastica.
Sono gli anni 1913-14, e il tema dominante è il mondo di poveri, di emarginati, figure solitarie e tristi, che lasciano trasparire l’oppressione e la rassegnazione. È il periodo degli acquarelli, prevalentemente monocromi blu, in cui sembra profonda la consonanza con I derelitti del periodo blu di Picasso che peraltro Oppi, secondo la sua testimonianza a Edoardo Persico, conosce soltanto successivamente. Si configura qui, in una sintesi di diverse culture tra Venezia, Vienna e Parigi, il primo tempo di Oppi, così come si mostra ne Il chirurgo, del 1919.
La sua cifra è un espressionismo classicheggiante, arcaico, un antefatto del Novecento di Margherita Sarfatti, che si svolgerà soltanto nel decennio successivo. E ciò che è sorprendente è che da qui Oppi si slanci verso un più maturo, pieno e nutrito di forme classicheggianti, «realismo magico». Osserva giustamente la curatrice Portinari che, agli esordi di Novecento, «Oppi sta già un poco a lato rispetto ai compagni, guarda più al primitivismo italiano, ad André Derain, alla Neue Sachlichkeit, la Nuova oggettività tedesca, attraverso la declinazione sintetica indicata dalla Sarfatti in modo un po’ eretico, poi volgerà alle seduzioni del Rinascimento italiano».
È un nuovo classicismo quello di Oppi, luminoso, compiuto, senza riserve. Come scrive Ugo Ojetti: «Con la sua arte egli vuole parlare a tutti, non più soltanto ai cenacoli… La figura umana, piena, bella, robusta, a dominio del paesaggio di fondo, è il suo soggetto preferito. È un’arte che si parte dal vero ma lo domina, lo sceglie, lo ordina, per creare qualcosa che sia più durevole e consolante della fugace realtà».
La forza della mostra di Vicenza è di non inseguire i passaggi della storia configurata, ricostruendo, per esempio, il contesto del gruppo del Novecento della Sarfatti, ma indicare il percorso dell’immagine femminile in un fascinosissimo e travolgente confronto di maestri. Si vedono così, nello stesso anno, il 1924, i gruppi femminili di donne ignude di Oppi, Le Amazzoni, e Concerto di Felice Casorati. Lungo il percorso li accompagnano gli abiti degli anni Venti, elegantissimi, della Fondazione Tirelli Trappetti, e gli stessi gioielli che vediamo nei ritratti.
Tutte queste donne sono prigioniere negli spazi della basilica sigillati per le misure pestilenziali stabilite dal governo. Dipinti in quarantena, in attesa della visita dei medici, I chirurghi prefigurati da Oppi. C’è sacralità e solennità nella sua idea dell’uomo (e della donna).
Nell’autunno del 1925 Oppi vinse un importante riconoscimento alla XXIV Esposizione internazionale di pittura del Carnegie Institute di Pittsburgh e nel febbraio 1926 prese parte alla prima Mostra del Novecento italiano, allestita nel palazzo della Permanente di Milano. Scoppiò qui una nuova, violenta polemica, poiché fu accusato di aver copiato da fotografie due delle opere esposte (Sera romagnola e Nudo provinciale).
Dopo aver esposto alla XV Biennale di Venezia del 1926, partecipò a diverse mostre d’arte italiana all’estero, e in particolar modo a quelle organizzate dal movimento del Novecento italiano, che nel corso del 1927, a Ginevra, Zurigo, Amburgo, Berlino e Lipsia.
Nello stesso anno tenne una personale alla galleria Pesaro, presentata da Tullio Garbari, ove espose, tra le altre, la grande tela I chirurghi (1926, Vicenza, Pinacoteca di Palazzo Chiericati). Fu proprio l’amicizia con Garbari, probabilmente, a spingerlo alla conversione al cattolicesimo, maturata nel corso del 1928 (tra 1923 e 1926, comunque, aveva già realizzato la pala raffigurante San Venanzio Fortunato vescovo di Poitiers che inneggia alla Croce per Valdobbiadene).
Allo scadere del terzo decennio diradò improvvisamente l’attività espositiva limitandosi a poche, importanti occasioni: nel 1928 presentò infatti il Ritratto della signora Alma Giavi Leone alla XVI Biennale di Venezia e allestì una sala personale alla Mostra della Secessione nel Glaspalast di Monaco di Baviera; nel 1929 fu a Darmstadt e Berlino, ma mancò la seconda Mostra del Novecento italiano a Milano; nel 1930, infine, espose quattro dipinti alla XVII Biennale e ordinò, nelle sale della neonata galleria del Milione di Milano, un’ampia mostra personale, curata da Edoardo Persico e incentrata sulla produzione giovanile, precedente la svolta del 1921.
Fra il 1930 e il 1932 eseguì gli affreschi nella cappella di San Francesco (arco d’ingresso con Santi e beati dell’Ordine e pareti con Storie francescane) della basilica di Sant’Antonio a Padova, fornendo una delle prime, significative traduzioni in pittura murale del classicismo novecentista. Nel 1932 fu per l’ultima volta alla Biennale di Venezia. Ritiratosi a Vicenza, trascorse lunghi anni in solitudine, non esponendo in pubblico e dipingendo assai poco (per lo più opere di carattere religioso). Ritorna ora, nello spazio solenne della Basilica, per la mostra più ricca e sofisticata che Vicenza abbia avuto negli ultimi anni.
