Dalla ribellione ai canoni ottocenteschi dei Futuristi alle astrazioni delle avanguardie contemporanee sempre più difficili da comprendere. L’interrogativo sul reale significato di un’espressione artistica è legittimo. E destinato probabilmente a restare senza risposta certa. Con l’avvertenza, però, del sempre attuale Leo Longanesi che diceva: «L’arte è un appello al quale troppi rispondono senza essere stati chiamati».
Non esiste l’arte contemporanea. Esiste una idea dell’arte contemporanea, che si interpreta come un’arma da usare contro chi non si riconosce in un perimetro delimitato dalle mode e dal mercato. La condizione umana di precarietà, di crisi, di rivolta, determina un malessere di cui si fanno interpreti alcuni artisti particolarmente sensibili. Quella condizione degrada in chi assume un atteggiamento che progressivamente trasforma il dramma in una finzione.
All’inizio è la viva coscienza di un’esperienza di sofferenza, come in Franz Kafka o Rainer Maria Rilke: «Le opere d’arte sono sempre il frutto dell’essere stati in pericolo, dell’essersi spinti, in un’esperienza, fino al limite estremo oltre il quale nessuno può andare». Parallelamente Alberto Giacometti, scultore di una crisi che si riflette nella forma, risponde, con viva intelligenza: «L’oggetto dell’arte non è riprodurre la realtà, ma creare una realtà della stessa intensità». Niente di più vero. È in fondo una variazione dell’intuizione di Oscar Wilde. Che scriveva: «Nessun grande artista vede mai le cose come sono veramente. Se lo facesse, smetterebbe di essere un artista».
Ma era stato un filosofo come Benedetto Croce a ricondurre la questione a un apparente relativismo che si risolve in una intuizione istintiva della idea stessa di arte come percezione di un bene condiviso attraverso una emozione rivelatrice: «Alla domanda: “Che cos’è l’arte?” si potrebbe rispondere celiando (ma non sarebbe una celia sciocca): che l’arte è ciò che tutti sanno che cosa sia”». Per questo l’intuizione precede l’atto critico, che è impuro, condizionato, interessato, e spesso non adeguato a comprendere il mistero di un’opera d’arte, frutto di un tormento che è solo condivisibile emozionalmente, per identificazione: «Le opere d’arte sono di una solitudine infinita, e nulla può raggiungerle meno della critica» dice Rilke.
È una dichiarazione di guerra. E vale per le anime naturalmente belle. Per gli altri basta il richiamo di Leo Longanesi, cinico e condivisibile: «L’arte è un appello al quale troppi rispondono senza essere stati chiamati». Ma la definizione di arte vacilla quando arrivano le prime avanguardie, intenzionate a sconvolgere un ordine che aveva presupposti certi, ma fragili, come abbiamo visto. Aprono le danze, malignamente, i Futuristi, in un Manifesto incendiario, che, inizialmente sembra un gioco, ma si rivelerà un terremoto: «Noi vogliamo cantare l’amor del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità. Il coraggio, l’audacia, la ribellione, saranno ele-menti essenziali della nostra poesia. La letteratura esaltò fino a oggi l’immobilità pensosa, l’estasi e il sonno. Noi vogliamo esaltare il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo ed il pugno. Noi affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova; la bellezza della velocità. Un’automobile da corsa col suo cofano adorno di grossi tubi simili a serpenti dall’alito esplosivo… un’automobile ruggente, che sembra correre sulla mitraglia, è più bello della Vittoria di Samotracia».
Tuttavia, un poco alla volta, nel corso del secolo, la provocazione si farà norma, e l’arte sembrerà esistere solo nella condizione febbrile dell’avanguardia. Tragicamente sereno e imperturbabile si mostrerà così il più radicale di tutti, Marcel Duchamp, imponendo un oggetto d’uso, l’orinatoio, nello spazio destinato all’opera d’arte. È lucido, estremo, definitivo: «Io mi definisco “anartista” invece di artista, o meglio ancora, “respiratore”. La mia attività consiste, semplicemente, nel vivere». Davanti a queste lucide provocazioni, non sarà difficile a un uomo d’ordine, intelligente e originale, ma indisponibile a farsi portare in giro, rispondere con un epitaffio, in difesa dell’intelligenza: «L’arte moderna si chiama così perché non ha nessuna probabilità di diventare antica». La formidabile battuta è dello statista Nikita Krusciov, innovatore e presidente dell’Unione sovietica.
Su questa scia uno dei più intelligenti scrittori italiani potrà definire i prodotti effimeri degli artisti d’avanguardia con una battuta folgorante: «I capolavori oggi hanno i minuti contati». È un’intuizione perfetta e micidiale di Ennio Flaiano, del quale è appena ricorso il centenario. Lo segue, superando il paradosso, in un’implacabile fotografia, il critico di settore Brian Sewell: «Più frequentiamo le mostre d’arte moderna, più tutto sembra assomigliare a un’opera d’arte, compresi la sedia dell’addetto alla sorveglianza e l’estintore». Lo si può smentire? Non è la stessa sensazione che trasmette la visione del travolgente episodio di Alberto Sordi, Le vacanze intelligenti, nel film Dove vai in vacanza? È il 1978, l’anno della 38esima Biennale intitolata Dalla Natura all’Arte, dall’Arte alla Natura; quest’edizione traeva spunto da una massima di Vasilij Vasil’evic Kandinskij: «Grande astrazione, grande realismo». La direzione del Padiglione Centrale era stata affidata ad Achille Bonito Oliva. Esilarante la scena in cui Remo e Augusta, i protagonisti dell’episodio del film, non riescono a comprendere il linguaggio e le forme dell’arte contemporanea e, quando lei si ferma per riposare su una sedia, viene scambiata per una installazione d’arte vivente – «sedia con corpo adagiato» – che un visitatore è disposto a pagare una cifra ragguardevole. Nella loro esperienza si misura che la valutazione di Sewell è perfettamente compiuta. E la concezione dell’arte ha perduto i confini.
Tutto è arte, niente è arte.
