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Nel palazzo dove il tempo si è fermato

Nel palazzo dove il tempo si è fermato

A Imola, nella dimora settecentesca della famiglia Tozzoni s’intrecciano bellezza, equilibrio, opere d’arte e vicende personali di chi nei secoli l’ha abitata. Ecco che un edificio storico rivela al visitatore il proprio spirito, come quello avvolgente e affascinante della città sul confine tra Emilia e Romagna.

A Imola il tempo è fermo, nelle silenziose e linde chiese, nella impressionante raccolta di Giovanni Scarabelli, magistrale e ingegnoso geologo, scienziato, paleontologo, fondatore dell’archeologia preistorica italiana, e primo archeologo a realizzare in Italia uno scavo stratigrafico.

Nel museo di San Domenico le collezioni sono ancora nelle vetrine ottocentesche con un allestimento luminoso e rispettoso senza velleità di finta museografia: nella prima parte oggetti etnografici provenienti dall’Africa e dal Sudamerica; nella seconda parte più di 25 mila reperti divisi nelle sezioni di geologia, archeologia e scienze naturali. E tutto in prossimità della bella casa di Scarabelli nella piazza del primo ristorante d’Italia, il San Domenico, creatura, per composte delizie epicuree, del cavalier Gianluigi Morini. Mi chiamava di tempo in tempo, lungo tanti anni di conoscenza, per invitarmi nel suo santuario gastronomico o chiedermi di portare la sua eleganza nella mia casa romana, con memorabili pranzi. Questa cittadella del San Domenico, così ricca e varia, è la prima ragione di meraviglia in questa riparata città, con il ben ordinato museo diocesano affacciato su un rinnovato giardino all’italiana.

Ma nessun luogo parla di un tempo immobile, quasi che il mondo si fosse fermato, come Palazzo Tozzoni. Torno a vederlo dopo più di quarant’anni, quando ancora non era aperto al pubblico ed era appena stato donato dall’ultima generosa Tozzoni, Sofia Serristori, che vi aveva vissuto una vita silenziosa, al comune di Imola. Ne ebbi una formidabile impressione. Credo che, a parte le grandi collezioni fidecommmissarie romane e il palazzo Cattaneo Adorno di Genova, sia una delle case conservate più integre nei loro arredi, nonostante il passaggio al pubblico.

Nel palazzo dove il tempo si è fermato
La stanza dell’alcova, parte della ristrutturazione settecentesca
Nel palazzo dove il tempo si è fermato
La biblioteca arredata nell’Ottocento.
Nel palazzo dove il tempo si è fermato
Nella ricca collezione, la settecentesca Maddalena penitente di Ignazio Stern.

Vi è, in verità, poco lontano, a Cesena, il mirabile Palazzo Chiaramonti, la casa di quello che sarebbe diventato Pio VII. E puoi immaginarne l’eleganza e il fasto. A Palazzo Tozzoni non te lo aspetti. La facciata è semplice e maestosa; l’interno, integro, si sviluppa su tre piani, intorno al grande scalone di Domenico Trifogli, dominato dalle eleganti e slanciate sculture, la Pace e la Guerra, di Francesco Janssens, artista fiammingo del Settecento, allievo a Bologna di Giuseppe Mazza, e rivale, in provincia, di Angelo Piò.

Ero ritornato qualche anno fa, ritrovandone le atmosfere, ma forse con un tempo insufficiente per sentirne quella sempre più rara condizione (tanto più se confrontata con l’allestimento intensivo della Pinacoteca del museo di San Domenico) di trasferimento nel tempo in cui il palazzo fu costruito e le collezioni costituite. Basta entrare nel primo grande ambiente con gli impressionanti e classicissimi dipinti mitologici di Girolamo Donnini, e il grande ovale di Ignazio Stern (una meravigliosa Assunta sollevata dagli angeli). Chiede di essere compreso un Sant’Andrea, di scuola napoletana, nel quale il linguaggio di Luca Giordano si incrocia con quello di Giovanni Battista Beinaschi. I dipinti parlano.

E già la prima volta uscii dal Palazzo con la ghiotta attribuzione a Pietro Liberi di una Venere fra gli amorini, sensuale e provocante. Avrei ricordato a lungo, da quegli anni lontani, quel dipinto veneziano in terra emiliana, che si accompagnava alle altre due tele, nell’alcova, di Giovanni Battista Langetti e di Antonio Zanchi. In serena attesa ti aspettano sulle pareti un estatico San Francesco di Bartolomeo Passerotti, il ritratto di Pierpaolo Tozzoni firmato da Lavinia Fontana, la Pietà di Bartolomeo Cesi, il severo Cristo deposto di Ferraù Fenzone, la pensosa Maddalena penitente di Ignazio Stern. Notevole è anche la collezione di pitocchi e mendicanti di Antonio Beccadelli, che evocano Giuseppe Maria Crespi e Pietro Longhi.

Dello spirito della collezione ha detto bene, e con la consueta precisione, lo storico dell’arte Angelo Mazza: «La composizione della collezione, che presenta una netta prevalenza di dipinti di scuola bolognese, comune del resto a tutto il patrimonio pubblico di Imola, registra l’attenzione dei Tozzoni verso i principali episodi che animavano la vita artistica cittadina nel corso del Settecento. Si trattava non solo di procurarsi dipinti dei principali artisti imolesi (si veda la serie delle quattro sovrapporte del salone, e il Cristo con il Centurione del Righini, o le lunette a pian terreno del Bartolini), quanto piuttosto di riuscire ad assicurarsi opere di artisti più famosi che solo per poco tempo soggiornavano in Imola o in altre zone della Romagna, richiamati da qualche commissione pubblica. È il caso dello stuccatore Francesco Janssens, da Bologna trasferitosi a Imola per eseguire le statue della chiesa dei Santi Nicolò e Domenico, e successivamente impiegato nella realizzazione delle statue per lo scalone del Palazzo; o di Girolamo Donnini i cui quattro ovali del salone furono presumibilmente eseguiti quando il pittore lavorava con l’allievo Giuseppe Righini alla due tele per la chiesa del Carmine di Imola. A essi si possono aggiungere Lavinia Fontana, Bartolomeo Cesi, Ferraù Fenzoni e, per concludere, Pasquale Saviotti che decorò con tempere le tre camere che compongono l’appartamento ricavato verso il 1818 al piano nobile del palazzo».

Tutto è disposto ancora con composta armonia su pareti di stoffa dipinta. Ed è stata felice l’intuizione di mostrare riconoscenza al «numen loci» che conservò, con un simulacro in una stanza nel piano nobile del palazzo, lo spirito dei Tozzoni. Ora ritorna e ci accoglie, in piedi: è una donna triste e severa. Fu Giorgio Barbato Tozzoni (1781-1873) a riordinare, così che ancora oggi ce ne si può giovare, il ricco archivio di famiglia, destinandogli una sala, foderata di carte e documenti. Alle pareti si ammirano stemmi e ritratti, e anche il suo, giovane ed elegante nell’uniforme da ufficiale delle guardie del corpo della regina reggente d’Etruria.

Molto si sa dei Tozzoni da queste carte e anche della vita di Imola. Giorgio sposò Orsola Bandini (1797-1836), più giovane di lui di 16 anni, di famiglia faentina. Gli sposi hanno passioni comuni, amano la letteratura e la musica, ma hanno caratteri diversi e inquieti. Giorgio prepara per Orsola un «quartiere tutto a nuovo» nel palazzo, in spazi luminosi di gusto neoclassico. Lui la ama disperatamente, ma il matrimonio non è felice, Orsola è impaziente, turbata, né bastano ad acquietarla festeggiamenti e viaggi. Nel 1822 le muore, a soli due anni, il figlio Alessandro, e cade in una cupa depressione. Saranno anni difficili, di malinconia e solitudine. Dopo qualche anno se ne andrà anche lei, e Giorgio non vorrà accettare l’assenza di quella moglie difficile, pur risposandosi.

Così, per non piegarsi al destino, e avere vicina in morte la donna che gli fu lontana in vita, fece realizzare da un artefice anonimo un oggetto a tutt’oggi unico: un manichino a grandezza naturale con le perfette sembianze di Orsola. E lo terrà per anni al suo fianco, nel loro appartamento in stile impero. Si sa dalla documentazione d’archivio che la contessa aveva un ricco guardaroba, di cui restano soltanto gli indumenti del manichino: i capi di biancheria intima, l’abito da giorno, calze e guanti in tricot di seta, una coppia di graziose scarpette, il fisciù in mussola di cotone con bordo di pizzo, un ombrellino con manico in avorio e una sacchetta in cuoio.

L’abito blu scuro è in due differenti tessuti, per un modello in voga tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta dell’Ottocento, scelto fra quelli che la contessa era solita indossare nelle sue tristi giornate. Giorgio ha voluto ricordare la giovane moglie attraverso un’immagine familiare, legata alla loro vita quotidiana. Così, a Palazzo Tozzoni rivivono lo spirito, l’estro, i turbamenti, le nevrosi di persone come noi, anche disperate, in spazi eletti, ma che, come Giorgio Barbato, ci hanno voluto lasciare l’impronta e la memoria della loro vita in questa stanze. Di queste lunghe e lente giornate, nelle estati e negli inverni di Imola, ci resta, in questo simulacro, la memoria. E la casa, come raramente accade, vive. Non è un museo, ma un luogo di esperienze, di turbamenti , di felicità e di sofferenze. Chi entra in palazzo Tozzoni lo sente. E vuole tornare a Imola.

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