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Sgarbi: «Il museo interiore di mio padre»

Sgarbi: «Il museo interiore di mio padre»

I pittori del Seicento, un inventore contemporaneo di paesaggi fantastici. E poi un magnifico duomo romanico-bizantino…
Ecco le «presenze» che balenano nella vita e negli scritti di un autore molto caro al critico di Panorama.


Grande lettore, mio padre non era altrettanto grande cultore di arti figurative ma, a partire dalla metà degli anni Ottanta, fu travolto dal mio compulsivo entusiasmo che trasformò la sua casa di campagna, riparato rifugio, disturbato soltanto dal temperamento irruento di mia madre, in una pinacoteca.

Ci siamo tutti emozionati vedendo il film di Pupi Avati tratto dai suoi libri. Abbiamo visto la sua anima, molti si sono commossi. Tra i tanti che mi hanno scritto, segnalo il commento di una giovane donna, Silvia, particolarmente efficace: «Il film è un racconto di un racconto d’amore, ho pianto come non piangevo da tempo. Delicatezza, poesia mi hanno pervasa fin dalle prime scene. Mi ha scosso per ore e ore. Memorie che diventano parole, parole che trafiggono, parole che lasciano senza parole. Un’opera lucida e ben riuscita. Bravo il regista che nei momenti “vuoti” ha saputo raccontare per immagini. Bravissimo Pozzetto, ha dato dignità e tanta delicatezza. Nessuna retorica strappalacrime, recitazione sottotono. Ben fatto. Complimenti».

E l’altro, della scrittrice ferrarese Francesca Boari, che indica l’analogia con la sua esperienza di figlia e quindi la proiezione in una dimensione universale: «Ho visto il capolavoro di Pupi Avati dedicato all’amore straordinario di Nino e Rina. Alcuni frammenti di vita che restituiscono il senso a queste esistenze altrimenti destinate all’oblio, dipinte con indicibile delicatezza e gentilezza. Mi è tornato in mente tra lacrime e nostalgia il mio primo romanzo, dedicato a mia madre». L’interiorizzazione è così forte che, nonostante la varietà e la ricchezza dell’arredo, i volti dei protagonisti appaiono così intensi che quadri e sculture si dissolvono, senza restare nella memoria. È forse quello che provava mio padre, e in una Babele di immagini su cui il suo sguardo, offuscato dagli anni e dai ricordi, non si fermava. Nel libro ci sono descrizioni di caratteri, racconti di caccia e di pesca, odori delle valli dentro cui si immergeva nelle botti, impressioni di paesaggi, ma pochissimi riferimenti ai quadri e alle sculture con le quali era costretto a convivere, e che stavano davanti ai suoi occhi tutti i giorni.

Il ministro Dario Franceschini, nell’introduzione al catalogo delle opere della Fondazione Cavallini Sgarbi, esposte al Castello di Ferrara, scrive con ironia e divertimento: «La casa sta lì, con l’argine del Po alle spalle, custodita dal silenzio delle strade di Ro Ferrarese. Puoi attraversare il giardino, passare per la farmacia e poi entrare per una piccola porta. Ti aspetti l’ordine semplice ed essenziale delle nostre case di campagna e invece precipiti in un caos che ti stordisce. Sculture, quadri, oggetti, disegni, libri che riempiono ogni spazio, sino ai soffitti di tutte le stanze e poi nelle scale, in cucina, nei bagni, nei corridoi, nelle soffitte. Uno strettissimo varco consente di camminare a fatica in mezzo alle opere d’arte che aspettano e ti guardano per essere guardate, e mentre lo percorri non puoi che pensare a D’Annunzio e sentirti a Gardone, in quel pieno di creatività e di energia. E in questo Vittoriale deve esserci Vittorio ad accompagnarti nel giro della casa. Ovviamente ti ubriaca di parole mentre accarezza ogni cosa, raccontandone l’avventura dell’acquisto, l’attribuzione, la storia. A me è capitata la fortuna di passare a Casa Sgarbi una notte di Capodanno e cenare. con pochi ospiti, come su un palcoscenico mentre lo spettacolo è in corso. Vittorio che arriva ben oltre la mezzanotte, una lite furiosa con Rina come tra due innamorati, Elisabetta che sparge quiete e buonsenso. Poi, a notte fonda, il giro della casa seguendo Vittorio in fila indiana, in quello spazio strettissimo tra statue e mobili sino al piano superiore. E qui il gran finale. Lui apre una porta, accende la luce, entriamo e con un sobbalzo tutti scopriamo di essere nella stanza da letto del padrone di casa che dorme da qualche ora. Cerchiamo di arretrare e fuggire ma Vittorio ci ferma e dice: “Non preoccupatevi, mio padre è abituato”. Da sotto le coperte si sente la voce di Giuseppe che mormora: “Sì, sì, entrate pure, i quadri meritano”».

Eppure, ciò che mio padre suggeriva a Franceschini sembrava non valere per lui. Pochissimi sono i riferimenti alle opere d’arte nei suoi memorabili libri carichi di dolcezza e di profondità psicologiche. Ricordo che, in una notte di Natale, durante uno dei miei rari rientri a Ro, decisi di sottoporlo alla terapia d’urto di una visione degli ultimi acquisti: alcuni importanti dipinti ferraresi di Giovanni Battista Benvenuti detto l’Ortolano, di Benvenuto Tisi detto il Garofalo, di Scarsellino, di Carlo Bononi, di Giovanni Agostino da Lodi. Nessun dubbio sulla sua curiosità. Ma non ce n’è traccia nei libri, nonostante l’evocazione letteraria di Artemisia Gentileschi o la sensualità contagiosa del Morazzone (una superba Maddalena). Anche nel film, pur muovendosi davanti ai dipinti come fantasmi in penombra, c’è un solo riferimento, quando a un Fabrizio Gifuni demotivato dall’«indisponibilità» a raccontare le sue memorie, mio padre dice: «Ma può rimanere! Non per me. Ci sono un sacco di capolavori in casa! Non le bastano Guercino e Nicolo dell’Arca?».

Nessun dubbio che, nel corso degli anni, da quando il busto di San Domenico arrivò a casa, nel 1984, mio padre ne avesse compiuta consapevolezza. E si fosse soffermato a guardarlo, anche per la singolare coincidenza della sua apparizione nello stesso anno in cui morì lo zio Bruno, quasi a prenderne il posto. Ma nei libri non ce n’è traccia. Anche il Guercino, il Ritratto dell’avvocato Francesco Righetti, di cui si racconta nel film, acquistato in un’asta a Londra e proveniente dal museo Kimball di Fort Worth, era motivo di orgoglio, ma non di dialogo o meditazione. E questo può dirsi per Lorenzo Lotto, per Jusepe de Ribera, per Francesco Hayez, per le tante sculture fisicamente ingombranti. Omero, Euripide, Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, Guido Gozzano, Anatole France, Victor Hugo, Giacomo Leopardi, Louis-Ferdinand Céline, con le loro parole e i loro pensieri, gli cantavano dentro. E, più ancora che al mio letteratissimo zio, parlavano gli scrittori e i poeti contemporanei: Bertolt Brecht, Eugenio Montale, Giorgio Bassani, Mario Tobino. Dalla raccolta di versi Asso di picche derivavano emozioni condivise: «Una nostalgia mi è presa / di rivedere mia madre / i miei fratelli / la nostra casa fra i platani, / udire la voce / di chi mi è consanguineo. / Il resto è nulla. / I tramonti della mia terra valgono. / Il resto è nulla». Tobino aveva intepretato il suo pensiero.

Difficile trovare analoghi affondi sui dipinti, anche di artisti concettuali come Giorgio De Chirico o Giorgio Morandi, così facili da montare in letteratura. Nei suoi libri c’è un ricordo per Adelchi Riccardo Mantovani, figlio della bidella della scuola elementare, che andò a lavorare in Germania, dove tuttora vive, e si scoprì pittore. La sua vicenda umana lo dovette incuriosire spingendolo, tra tanti capolavori, a lasciarci le sue impressioni: «Non so dire che lingua sia quella di Mantovani: basta sapere che è una lingua che sento istintivamente vicina. Forse perché mi sembra vicina agli occhi con i quali, sin da bambino, ho sempre guardato la campagna, le strade, le case, i canali, i campi, gli animali, le persone e, naturalmente, il cielo e il fiume. Di tutte queste cose mi pare sia fatta anche la poetica di questo artista, e mi capita di pensare che – se il vento avesse lasciato cadere le spore del talento della pittura anche nei pressi del mulino di Stienta – forse anche io avrei dipinto il mondo che mi circondava e nel quale sono cresciuto (lo stesso nel quale è cresciuto lui) con un tratto simile al suo… Le case di mattoni rossi e la campagna verde bagnata di luna che si distendono di fianco a un ansa dello stesso fiume nel Notturno padano, potrebbero essere le case e la terra intorno al mulino Sgarbi, dove sono nato e dove ho trascorso la più felice delle mie stagioni».

Un altro tra i rari passaggi per chi, come lui, aveva vissuto la leggenda del Po di Gnocca, riguarda l’Allegoria della vita umana di Guido Cagnacci, la cui morbidezza delle carni e la cui sensualità gli dovettero apparire inequivocabili e parlanti. I suoi occhi sfiorano i ritratti di «sussiegosi gentiluomini» di Ferdinand Voet, e l’etereo San Giovanni Nepomuceno di Ignaz Stern. E poco altro.
In un libro di così intense emozioni e rimpianti c’è soltanto una descrizione che riguarda il tempo dell’adolescenza nelle sue Marche, presso i parenti di Corinaldo. E non conduce a un percorso interiore: «Ogni volta che mi trovavo lì, sollevavo lo sguardo a cercare San Ciriaco: il Duomo che, dal Colle Guasco (che un tempo aveva ospitato l’acropoli), dominava e domina ancora porto e città. Amavo San Ciriaco, che alla solidità romanica univa l’estro bizantino; più di tutto mi piaceva il suo portale, con i due splendidi leoni di marmo rosso sorreggenti le colonne del piccolo portico che protegge il portale (un portale romanico, che ricordava quello della chiesa della mia prima comunione). Mi piaceva salire a San Ciriaco per poi scendere al porto, e alla strada normale preferivo un sentiero che veniva giù lungo il dirupo e rendeva la discesa più impervia e avventurosa e, dunque, molto più interessante». Rara annotazione di viaggio in un libro in cui gli itinerari sono tutti spirituali. Un tornare agli anni della adolescenza nel ricordo di un grande monumento. Poi, più niente. Singolare l’esperienza di un uomo che è vissuto in mezzo ai quadri senza vederli.

Sgarbi: «Il museo interiore di mio padre»
“Notturno padano” di Adelchi Riccardo Mantovani (1994)
Sgarbi: «Il museo interiore di mio padre»
La facciata del Duomo di Ancona dedicata a San Ciriaco (Getty Images)
Sgarbi: «Il museo interiore di mio padre»
“Allegoria del Tempo (la vita umana) ” di Guido Cagnacci (1650 ca.)
Sgarbi: «Il museo interiore di mio padre»
San Giovanni Nepomuceno di Ignaz Stern (1680)
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