Le polemiche sul nuovo nome del «ministero della scuola» sono strumentali. Perché gli italiani per primi sono convinti dell’importanza di raggiungere risultati grazie all’impegno.
Il nome del ministero che si occupa della scuola non ha proprio pace in Italia. Sono anni che ogni due per tre cambia definizione, ora con questo governo si chiama Mim, ministero dell’Istruzione e del merito. Dopo la decisione del governo c’è stata una strana discussione perché, a parte il fatto di aggiungere la parola «merito», sul tema la sinistra – o almeno il Pd di Matteo Renzi – si era sempre dimostrata favorevole a possenti iniezioni di riconoscimento a fronte dell’impegno nella scuola. Per chi si ha presente il provvedimento di legge La Buona Scuola, rammenterà che il merito aveva un posto di primo piano. Lo ha ricordato lo stesso Renzi nel suo discorso per la fiducia al governo di Giorgia Meloni, al Senato. Ma si sa, in politica se una cosa la faccio io va bene, se la stessa cosa la fai tu non va più bene. Logiche incomprensibili, me ne rendo conto, eppure funziona così.
Se andiamo un po’ più in profondità, si tratta della non nuova discussione, molto politica, sulla cosiddetta meritocrazia che, come ricorda la Treccani, viene dall’inglese meritocracy, composizione del latino meritum, merito e dell’inglese cracy, crazia. In altre parole, sarebbe il potere del merito e cioè una società in cui riveste una posizione centrale. Quando negli anni Settanta venne introdotto in Italia, lo si fece proprio con riferimento ai sistemi di valutazione scolastica basati appunto sul merito, ma qui si innescò la discussione: tale sistema non sarebbe stato discriminatorio per gli studenti che partivano da un punto di partenza svantaggiato rispetto ad altri a causa delle loro condizioni familiari e sociali? E lo stesso fu detto nei confronti del mondo del lavoro, segnalando il rischio che questa tendenza a premiare impegno e capacità fosse discriminatoria verso coloro che, per varie ragioni, non avevano accesso né a un mestiere né a un reddito dignitoso.
Non possiamo essere nel cervello della presidente Meloni né del ministro Valditara ma possiamo, con un certo grado di approssimazione alla verità, pensare che non abbiano apposto questo secondo nome per incrementare diseguaglianze e quindi creare disparità tra studenti provenienti da situazioni diverse. Questo anche in considerazione del fatto che, escludendo l’abbandono scolastico di ragazzi che arrivano da situazioni disagiate (sarebbe il vero problema cui mettere mano), studenti provenienti da situazioni sociali più basse spesso hanno un profitto eccelso e continuano ad averlo nei confronti di altri che godono di condizioni sociali molto più comode. C’è infatti una concezione positiva della meritocrazia, ossia quella che vuole gradualmente sostituire il merito al privilegio e abolire sistemi clientelari quando si devono assegnare delle responsabilità, fenomeno che purtroppo si verifica ancora sia pure in ambito universitario.
Ma torniamo al merito scolastico, cioè di quelle scuole che arrivano fino alle secondarie superiori. È chiaro a tutti che le condizioni familiari di partenza possono avere un influsso sullo studente. Solo per fare un esempio, cosa diversa è arrivare da una famiglia dove ci sono librerie piene di volumi piuttosto che da una famiglia dove di libri non c’è neanche l’ombra. Nessuno nega che il talento può essere ben nascosto, ma magari più presente nei secondi piuttosto che nei primi. Talora la mancanza genera la sete di sapere e qui entra in gioco il ruolo della scuola che è educazione, e-ducere, tirar fuori il talento la dove c’è e che, per fortuna, è distribuito non secondo le condizioni sociali. Tra l’altro, un sondaggio condotto da Demos ci dice che gli italiani vedono positivamente il principio del merito nella scuola al 74 per cento per quanto riguarda la preparazione degli insegnanti, al 73 per cento per quanto concerne le connessioni tra scuola e mondo del lavoro, al 70 per cento per la qualità della formazione degli studenti e al 63 per cento rispetto alla giustizia sociale, ovvero l’attenuazione delle diseguaglianze nella propria comunità.
Quindi (salvo poi le mamme o i papà che se la prendono con i professori quando i figli non studiano e ottengono cattivi risultati) sembrerebbe che gli italiani siano notevolmente a favore del merito all’interno della scuola. Poi si sa, le statistiche hanno molti difetti ma una media del 70 per cento è certamente un valore confortante.
