Home » Attualità » Opinioni » I furbetti della Banca Romana

I furbetti della Banca Romana

I furbetti della Banca Romana

Centotrenta anni fa, il primo grande scandalo dell’Italia unita: l’istituto della neocapitale che concedeva crediti facili (e non riesigibili) a presidenti del Consiglio, politici e speculatori immobiliari. La vicenda segnò un’epoca ma il processo che ne seguì si chiuse con l’assoluzione della classe dirigente.


Un crac che provocò la caduta di due governi e ne mise in crisi il terzo. Che sporcò un’intera classe dirigente politica. E che arrivò a lambire la casa reale. Lo scandalo della Banca Romana emerse nella sua gravità il 19 gennaio 1893 – esattamente 130 anni fa – con l’arresto del governatore dell’istituto di credito Bernardo Tanlongo, del cassiere Cesare Lazzaroni e di Leopoldo Torlonia, cui erano affidate le funzioni che oggi sarebbero di un revisore dei conti. Attorno a loro, un intero «generone» di politici con poca morale, affaristi senza scrupoli e amministratori evanescenti.

Erano «i Furbetti del quartierino» dell’Ottocento. Utilizzarono la zecca come una tipografia di manifestini che hanno il valore della carta usata per la stampa. Lo scandalo, ovviamente, prese corpo lentamente e andò consolidandosi all’ombra delle istituzioni. Il primo atto ha luogo a Palazzo Sciarra, nel 1870, nei giorni successivi alla breccia di Porta Pia con la gente in festa per l’avvenuta conquista di Roma, destinata a diventare capitale d’Italia. Viene convocata una riunione alla quale partecipano i prìncipi dell’aristocrazia capitolina, alcuni cardinali e i banchieri. Fra tutti decidono di non puntare sull’industria che prevede forti investimenti e tempi abbastanza lunghi prima di ottenere dei guadagni.

Meglio affidarsi alle speculazioni dell’edilizia. Roma sta tornando capitale di una nazione e sanno che presto conoscerà uno sviluppo abitativo immenso. Lì c’è guadagno per tutti e senza sforzo. Il proprietario terriero comincerebbe con il vendere a caro prezzo lo spazio su cui posare i mattoni. I palazzi, appena costruiti, sarebbero immediatamente disponibili sul mercato, con vantaggi esponenziali per le imprese. Ancora meglio se il capitale provenisse da prestiti. Il presupposto remoto del crack (e dello scandalo) della Banca Romana sta tutto lì.

Poi, certo, concorre il disordine del sistema creditizio affidato alla fantasia dei singoli più che al rispetto di regole. All’epoca non esiste un istituto centrale dal quale possano dipendere le politiche finanziarie del Paese. Gli istituti di credito, autorizzati a battere moneta, sono sei: quelli dei regni pre-unitari che dispongono di autonomi uffici di cambio. Sarebbe stato opportuno unificarli ma la decisione viene, ogni volta, rinviata. E si fa poco per disciplinare l’attività di queste mini-banche, con il risultato che la gestione finanziaria assomiglia soprattutto alla confusione.

«La nostra organizzazione bancaria è feudale»: Pietro Sbarbaro, sul periodico Le Forche Caudine, non prevede attenuanti. «La Banca Romana è rappresentata dall’oligarchia dei mercanti che non sono industriali e né commercianti: sono speculatori ai quali la Banca di Tanlongo concede i suoi favori». Come? «Con il collocare una cambiale senza scadenza reale che rimane chiusa nel portafoglio interno, passando da rinnovazione in rinnovazione, finché un giorno, per un piacere ottenuto, anche quel pezzo di carta si elide». Tanlongo sa a malapena leggere e scrivere ma appare versatile nel far di conto. Ai tempi della Repubblica romana, nel 1848, di Giuseppe Mazzini, faceva la spia per i francesi. E Cavour, anni dopo, l’ha incaricato di corrompere i cardinali sulla questione dell’unità d’Italia. È l’uomo di fiducia dei gesuiti ma asseconda anche il gran maestro della massoneria. Va da sé che è il benvenuto a Corte. Vittorio Emanuele II, con una quantità di debiti in reclamo, considera autentica benedizione le persone in grado di assicurargli dei prestiti. A Umberto I, che gli è poi succeduto al trono Tanlongo, piace poco: in compenso, sta nelle grazie della moglie e delle due amanti, la contessa di Santafiora e la duchessa Litta.

I primi sentori dello scandalo vengono avvertiti nel 1889. Inizialmente, il mercato in espansione funziona da correttivo a sé stesso ma quando inizia a rallentare, il credito, gonfiato come un pallone, dimostra la propria fragilità. Il governo è costretto a nominare una commissione d’inchiesta con il senatore Giacomo Alvisi a coordinarne i lavori. Subito emerge un ammanco di 9 milioni di lire, che per l’epoca è già una cifra mostruosa, ma un controllo più puntuale consente di verificare che l’emissione riguarda ben 128 milioni dei quali solo 58 con copertura finanziaria.

Il presidente del Consiglio è Antonio Starabba di Rudinì, ministro delle Finanze Luigi Luzzatti, presidente dell’assemblea Domenico Farini. I primi due capoversi della relazione portata in Parlamento mandano nel panico i deputati, che non vogliono nemmeno sentire. Votano un ordine del giorno dove, sostenendo che «non sarebbe stato utile divulgare i risultati dell’inchiesta», chiedono che l’indagine si svolga «riservatamente» in commissione. Il senatore Alvisi viene trovato morto prima che il governo ritenga conveniente domandargli informazioni più dettagliate. Quell’uomo deve essere stato uno dei pochi a prendere sul serio il compito di inquirente. E, per evitare che il risultato dell’indagine andasse perduto, aveva consegnato una copia del suo lavoro all’economista Leone Wollemborg che la mostra a un altro economista di grande prestigio, Maffeo Pantaleoni il quale, a sua volta, contatta due parlamentari: il repubblicano di sinistra Napoleone Colajanni e il clericale di destra, Lodovico Gavazzi. L’argomento torna di prepotenza all’attenzione dei politici.

Cade il governo Di Rudinì e Giovanni Giolitti che gli subentra accarezza l’idea di sbarazzarsi del problema, utilizzando la tecnica del predicare bene e razzolare male. A parole, estrema severità: «Se ci sono corrotti e corruttori, la mano della giustizia li colpirà». Ma poi lui stesso si preoccupa di nascondere sei plichi di carte compromettenti. Perché? A Giolitti addebitano la colpa di aver approfittato della banca facendosi prestare 60 mila lire, ma lui ha potuto giustificarsi senza affanno. Quella somma è stata chiesta dal governo per combattere le rivolte dei Fasci Siciliani e finanziare le manifestazioni di Genova in onore di Cristoforo Colombo. Pezze giustificative alla mano, quel denaro è stato restituito pagando anche gli interessi. Molto più nei guai i politici che grondavano moralismo. Le prime 69 mila lire sono andate al deputato Francesco Pais Serra, nobile sardo con trascorsi garibaldini. Altre 60 mila lire al ministro dell’Istruzione Ferdinando Martini.

Poi: il deputato abruzzese Federico Colajanni (per intercessione di Agostino Depretis), l’avvocato siracusano Emilio Bufardeci (su pressione di Francesco Crispi) e l’onorevole Alessandro Narducci (per la raccomandazione di entrambi). Prendono una «stecca» due dei Mille: Edoardo Arbib e Raffaello Giovagnoli. Nell’elenco dei clienti morosi risulta il nome del barone Gennaro Sambiase Sanseverino di San Donato che, non si sa con quanta solerzia, presiede la commissione parlamentare incaricata di riformare il sistema bancario. Gli elenchi dei beneficiati – in ordine alfabetico – si apre con il nome di Baldassarre Avanzini e arrivavano a Sebastiano Tecchio.

Giolitti è il meno coinvolto e, tuttavia, tenta di confondere i contorni dello scandalo. Probabilmente ritiene che scoperchiare i motivi del crac possa produrre un contraccolpo dannoso per le giovanissime istituzioni nazionali. Fa male i calcoli. Fra i parlamentari vengono nominati sette «saggi» i quali riescono ad accertare e descrivere nel dettaglio i meccanismi del credito che ha portato gli ammanchi. Non individuano responsabilità riservandosi un’unica critica per Giolitti che avrebbe intralciato le indagini, nascondendo documenti preziosi. La battaglia viene condotta dagli amici di Francesco Crispi che agguanta la guida del governo quando Giolitti, stremato, è costretto alle dimissioni.

A quel punto, quest’ultimo passa al contrattacco e, con l’aria di chi si sta liberando di un peso per caricarlo sulla schiena di qualcun altro, consegna le sei buste «scomparse». La più voluminosa raccoglieva 102 lettere dove c’entra Crispi che finisce per apparire quello che era: un avido ambizioso, con un paio di famiglie, l’amante e la moglie che gli fa le corna con il maggiordomo Achille. Per il presidente del Consiglio di fresca nomina, una mazzata. Non tanto per le garbate ironie sulle storie sentimentali, ma perché il carteggio denuncia come lo scandalo della banca dipenda in larga misura da lui. Crispi ritiene di non avere altra via d’uscita che instaurare una mini-dittatura. D’accordo con il re, ottiene un decreto di «proroga» della sessione parlamentare, atto che significa chiudere la Camera e non convocare i deputati. Il provvedimento è previsto dalla Costituzione ma è stato immaginato per le emergenze assolute. La reazione degli onorevoli benpensanti è energica ma inutile. Antonio Labriola sentenzia che «Crispi era fuggito di fronte al Parlamento nel momento in cui questo, per salvare il proprio onore, doveva smascherare il disonore». Anche un commento per Umberto I, che suona profetico. «Lo scandalo bancario è il cancro della monarchia».

© Riproduzione Riservata