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La mia ritirata sul Don

La mia ritirata   sul Don

La storia e l’epilogo della spedizione italiana in Russia, tra 1942 e 1943, raccontata con le immagini e le parole da chi ne prese parte, tra insufficienza militare e atti di eroismo. Esce un eccezionale «diario fotografico» di un alpino di Novara, che riuscì a tornare a casa dalla tragedia delle steppe innevate.


Il piede in cancrena con un odore insopportabile che prende alla gola. Una manciata di zucchero (rubato) nella tasca del cappotto per sopravvivere. E il gelo che incolla le dita delle mani. Come raccontare la «ritirata dalla Russia»: 350 chilometri, con la neve al ginocchio? Un mese senza togliersi gli scarponi per non correre il rischio di non riuscire più a infilarli? Pasquale Grignaschi, alpino di Novara, comandante del III plotone della 124 compagnia della «Cuneense», si è affidato a una fotocamera Zeiss Ikon (obiettivo Tessar Zeis) che gli ha consentito di raccogliere un centinaio d’immagini in bianco e nero. Facce di contadini e uno schieramento militare, la riva destra del Don battuta dall’artiglieria sovietica e una slitta rovesciata sul ghiaccio.

Quella rassegna fotografica è un documento storico che, a distanza di 80 anni, viene pubblicato dall’editrice Interlinea con una prefazione di Mario Rigoni Stern (datata settembre 2000) e la riproduzione delle pagine del diario dell’autore. Il testo – con l’emotività che quel tempo imponeva – rappresenta una specie di didascalia che descrive il contesto degli scatti, li spiega e ne trasmette il senso profondo. Il 24 maggio 1942, Grignaschi ebbe la certezza che si doveva partire per il fronte orientale perché il re Vittorio Emanuele III venne a passarli in rassegna. Presenza che significava essere destinati a missioni delicate. Infatti: «i saluti delle autorità», «i tradizionali fiaschi di vino» e «l’assalto di un nugolo di cinguettanti giovani italiane». Si mossero 56 tradotte con un carico di 18 mila alpini. Non si trattò del primo contingente inviato in Russia. Quando Adolf Hitler decise di sfidare Iosif Stalin (22 giugno 1941), Benito Mussolini pretese di partecipare alla guerra con un contingente italiano tanto che (il 26 giugno) partirono le divisioni «Pasubio», «Torino» e «Amedeo d’Aosta».

La rapidità di mobilitazione – straordinariamente rispetto ai tempi lenti italiani – rappresentò l’eccezione in un contesto di spaventosa disorganizzazione. Quei contingenti non sembrarono nemmeno lontani parenti dei reparti tedeschi e sovietici che si stavano affrontando. Le truppe italiane erano considerate «autotrasportabili», per dire che non avevano mezzi necessari per muoversi in blocco ma si doveva ricorrere a una laboriosa catena di navette per portare avanti i soldati, un gruppo per volta. Quanto alle armi, gli altri disponevano di cannoni che parevano montagne d’acciaio. Gli italiani venivano trascinati da muli e, al confronto, erano stuzzicadenti. «Cosa ci hanno mandato a fare?» domanda retorica che Grignaschi confidò al diario. «Abbiamo dotazioni che sembrano giocattoli. I T34 sovietici superano le 30 tonnellate. I nostri non arrivano a dieci».

Il primo anno di guerra in terra russa si risolse con i tedeschi che avanzavano e i sovietici che li lasciavano andare avanti, attirandoli negli immensi spazi delle loro terre. Le divisioni fasciste dovevano presidiare la sponda destra del Don. L’unico combattimento tricolore fu una carica a cavallo: l’ultima nella storia militare. Il 24 agosto (1942) a Isbusenskij, i sovietici, per alleggerire la pressione nemica, si portarono a ridosso delle truppe italiane «in trasferimento». I cavalleggeri non esitarono ad attaccare anche se di fronte ci stavano tre battaglioni. Al galoppo sotto il fuoco sovietico, senza preoccuparsi di uomini e animali, sventrati dalle raffiche. Raggiunsero i nemici e li misero in fuga. Gli ufficiali tedeschi commentarono che loro «queste cose non le sapevano più fare». Elogio che, senza volerlo, sapeva di amaro perché l’Italia era in grado di proporre cose ormai inutili mentre non era capace di realizzare quelle che servivano.

I contingenti italiani furono rinforzati con le divisioni «Sforzesca», «Cosseria» «Ravenna», «Tridentina», «Julia» e «Cuneense». In tutto 229.005 uomini, 25 mila animali e 16.700 mezzi. Quando arrivò Pasquale Grignaschi – quasi ad assecondare una guerra al rallentatore – «un sole gradevole intiepidiva l’aria». Erano «autotrasportabili» anche questi soldati e s’incamminarono a piedi. Marciando, gli scarponi alzavano «una polvere spessa che entrava negli occhi, nelle narici, impastava la bocca». Occorreva proteggere la faccia, avvolgendola in un fazzoletto. Però, la guerra che pareva sospesa lasciava il tempo di comprare un sacchetto di albicocche e mele essiccate. E le contadine, pur con un «odore di latte cagliato» addosso, «erano bellocce per quello che si poteva indovinare sotto la quantità d’indumenti che le infagottavano». Scene domestiche e quasi bucoliche. «Un bimbo accoccolato su di un traballante sgabello» riporta la nota del giorno 30 agosto 1942 «mangiava del pane che intingeva in un vasetto di miele. Un raggio di luce faceva risplendere di un oro meraviglioso il contenuto del vasetto». Una pace irreale, destinata a durare finché tedeschi e sovietici seguitavano a consumarsi nella fucina di Stalingrado. Quando cedettero le armate naziste di Friedrich von Paulus, il 2 febbraio 1943, i russi passarono al contrattacco. Anche sulle rive del Don.

Ancora dal diario: due sovietici (forse disertori) saltarono in aria sulle mine (20 novembre). Il geniere alpino Federico Rossi di Genova fu decorato al valore (22 novembre). L’alpino Amisano, mentre trascinava materiale per un passaggio scoperto, fu abbattuto da una raffica di mitraglia (24 novembre). Le truppe russe – anche abbastanza agevolmente – riuscirono a conquistare una testa di ponte che consentì loro di ammassare armi e uomini per scatenare la controffensiva. Presero posizione su una gobba di steppa che i soldati chiamavano «il pisello». Si alzava di pochi metri dal terreno e, tuttavia, sufficienti per tenere sotto scacco l’intera divisione. Da quel punto, potevano bombardare con efficacia distruttiva. Gli alpini tennero duro, scavandosi delle buche e rintanandosi dentro per non offrire punti di riferimento ai nemici.

Ma le notizie che arrivavano dagli altri fronti erano scoraggianti. Si stava cedendo ovunque. E anche su quello spicchio di Don, i russi attaccarono in forza e senza risparmio. «La neve si cosparse di caduti» riporta il resoconto (sommario) di Grignaschi «Un mortaio distrusse la nostra posizione anticarro con il tenente Lombardini unico sopravvissuto. I ventidue feriti russi vennero ricoverati e curati. I nostri morti sembravano scrutare il vuoto con occhi sbarrati sul nulla». Annotò l’autore: «Il mio cappello aveva un piccolo strappo con gli orli leggermente anneriti da una scheggia evidentemente intelligente». Impossibile resistere. Il 16 gennaio 1943 alle ore 18,30 cominciò la ritirata verso Minaj (prima) e Annovka (poi). I tedeschi – ordinatamente e con mezzi adeguati – ripararono verso la Crimea e poi nel sud dell’Ucraina. I reparti italiani si trovarono soli. Alla partenza, ognuno ebbe in dotazione razioni di cibo per due giorni e gallette per quattro. Distribuirono il cognac. E poi l’ordine di muoversi. In fila indiana. A piedi. «In espiazione di errori altrui».

La pista innevata era un inferno. A ogni passo occorreva strappare fuori il piede e ogni metro portava un motivo di sofferenza in più. A Popovka riuscirono a rifocillarsi con una minestra di cipolle. A Valujki i sovietici spararono una salva di cannone e Pierino Balocco saltò in aria con il suo mulo. Masticavano la neve per illudersi di mangiare qualcosa e calmare lo stomaco. In realtà aumentava la sete. Il «ripiegamento» in breve si trasformò in una fuga dall’effetto «si salvi chi può».

I soldati in colonna formavano una sorta di «biscia» nera lunga una quarantina di chilometri. La fila rallentava o s’ingrossava se, davanti, magari molti chilometri, avvenivano scontri con piccoli reparti sovietici. Che non s’impegnavano in un combattimento vero. Ai russi bastava – spaventandoli – togliere ai soldati le forze residue. Di rispondere al fuoco, neanche a ipotizzarlo. Quegli uomini – per alleggerirsi – lasciavano per strada tutto ciò che non ritenevano indispensabile: armi, pesi, ingombri, vettovaglie. La pista – come il percorso segnato da Pollicino con le molliche di pane – si trovò punteggiata da oggetti di ogni tipo. Anche da cadaveri. In centinaia, stroncati dalla stanchezza, si abbattevano nella neve marcando l’itinerario con un tragico rosario di vittime. Rallentavano, dondolando come ubriachi, si assopivano, stando in piedi, per stramazzare di schianto. Inutile scuoterli. Le ultime parole: «Lasciami stare: non sono mai stato così bene».

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