Mi hanno molto colpitole reazioni alla riforma del Codice degli appalti voluta dal ministro Matteo Salvini. Sfoltendo certi obblighi, forse, invece di dieci anni mi auguro che un’opera pubblica veda la luce dopo un anno o due.
Ho provato a digitare sul mio computer le seguenti parole: appalti, corruzione, arresti. È apparso un fiume in piena. «Otto arresti, in carcere funzionario della regione Marche», dal Resto del Carlino. «Appalti e corruzione, arrestati un funzionario della Regione e un imprenditore», dal Quotidiano di Puglia. «Corruzione e appalti truccati nelle Asp siciliane: nel mirino gare per 700 milioni, 5 arresti», dalla Sicilia. «Appalti pilotati e corruzione, arrestati i sindaci di Vezza d’Alba e di Montaldo Roero», da RaiNews. «Appalti per le mense, 11 arresti nel Milanese per corruzione», dalla Repubblica. «Appalti pilotati in Brianza e nel Milanese: 5 arresti e 3 aziende sequestrate», dal Giorno. Vi risparmio il resto, ma vi assicuro che con i soli titoli delle notizie apparse negli ultimi mesi potrei riempire tutta la pagina. Perciò mi hanno molto colpito la scorsa settimana le reazioni alla riforma del Codice degli appalti voluta dal ministro Matteo Salvini. La nuova legge ha tagliato una serie di obblighi per rendere più snelle le procedure di realizzazione delle opere pubbliche. A differenza di ciò che accade in altri Paesi, in Italia per realizzare una strada, un ponte o una qualsiasi infrastruttura servono anni.
Tempo fa, quando a Palazzo Chigi c’era Paolo Gentiloni, il governo stimò che per portare a termine i lavori di un’opera pubblica servissero quattro anni e mezzo. Due anni e sei mesi per predisporre il progetto, altri sei mesi per l’affidamento dei lavori e quasi un anno e mezzo per la realizzazione e il collaudo. In realtà, come per il famoso pollo di Trilussa, la media dice poco. Un po’ perché ci sono amministrazioni che vanno più svelte e altre che procedono a passo di lumaca. In Emilia-Romagna, Lombardia, Veneto e in generale nel Nord, tra processi decisionali e inizio dei lavori i tempi si accorciano. In Sicilia e nel resto del Mezzogiorno invece si allungano. E poi dipende dalle dimensioni dell’infrastruttura. Per quelle che prevedono impegni di spesa importanti, la fase di realizzazione può arrivare anche a 14 anni. E non parlo del ponte di Messina, cioè di un’opera impegnativa, sia per costo che per progettazione, ma anche di semplici viadotti. Insomma, al contrario di quanto avviene altrove, dove bucano montagne, costruiscono ponti, realizzano strade in tempi brevissimi, da noi è tutto molto complicato. Infatti, alla prima pietra si arriva dopo essere stati sommersi da una montagna di chiacchiere e di carte.
Per questo non c’è amministratore pubblico che nel corso degli anni non si sia lamentato della burocrazia e della lentezza con cui si realizzano i lavori di interesse collettivo. E, fino a ieri, tutti denunciavano la farraginosità del cosiddetto Codice degli appalti, ovvero del testo unico che detta le regole dei rapporti fra la pubblica amministrazione e gli appaltatori. Ricordo quando Beppe Sala, attuale sindaco di Milano, da commissario straordinario dell’Expo mi parlava della follia di una legge che pretendeva di stabilire la pendenza degli scivoli. L’inclinazione doveva essere di 7 gradi o giù di lì, non di più e non di meno, pena l’accusa di aver realizzato un abuso edilizio, reato di cui avrebbe dovuto rispondere l’appaltatore, ma anche il pubblico amministratore.
L’idea di regolare tutto nei minimi dettagli, fissando a norma di Codice perfino l’inclinazione di una pedana, è figlia della volontà di eliminare la corruzione. Più le regole saranno stringenti, è il concetto che ha portato alla scrittura della tavola delle leggi per chi intrattenga rapporti con la pubblica amministrazione, e meno illeciti ci saranno. A distanza di anni dall’entrata in vigore del Codice degli appalti, i risultati sono quelli che ho elencato all’inizio. Non è vero che aver fissato mille paletti per la costruzione di un’opera pubblica ha ridotto la corruzione e l’abuso: la cronaca dimostra ogni giorno il contrario, a conferma di un male che l’attuale ministro della Giustizia Carlo Nordio denunciava quando era magistrato. Se tu moltiplichi i centri decisionali e prevedi che ci siano dieci uffici a dover dare l’autorizzazione, non risolvi il problema della corruzione ma lo crei, perché su dieci porte che si devono aprire ce n’è sempre una che resta chiusa e l’imprenditore può essere invogliato a ungere i cardini per farla schiudere.
La realtà è che il Codice degli appalti non è servito a ridurre il fenomeno delle mazzette, e a poco è stata utile anche la nascita, 15 anni fa, della Autorità nazionale anticorruzione. Dunque, non credo che la semplificazione delle procedure annunciata dal ministro Salvini peggiorerà la situazione. Le tangenti c’erano prima dell’introduzione della legge sugli appalti e ci saranno dopo e a impedirle, punendo i corruttori e corrotti, penserà la magistratura, come accadeva trent’anni fa e come continua ad accadere oggi. In compenso, sfoltendo certi obblighi, forse, invece di dieci anni mi auguro che un’opera pubblica veda la luce dopo un anno o due. Così almeno scopriremo i politici che lavorano nell’interesse pubblico e quelli che si fanno gli affari propri, parlando molto in tv e sui giornali, ma lavorando poco.
