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Il modernissimo Pontormo

Il modernissimo Pontormo

Il grande pittore fiorentino del Cinquecento è stato di impressionante contemporaneità nelle sue rappresentazioni, mai accademiche, sempre alla ricerca di una vibrazione vitale. Lo dimostrano i suoi disegni preparatori, che fanno parte del Fondo Corsini, e adesso si possono scoprire all’Istituto centrale per la grafica di Roma.


Un amico pittore mi invia d’improvviso un disegno sul telefono, con il commento: «Proto Picasso». Ha ragione. Ma io gli rispondo: «Pontormo». E ho ragione. È un dialogo in codice, ma serve a intendere come l’arte non progredisce, ma risponde a una condizione interiore negli artisti in cui più forte è la vita della forma, un’emozione profonda davanti alle cose. Non se ne dubita per Picasso, la cui libertà è insita nello spirito dei tempi. E dunque da lui ci si attende di tutto, ma non da un pittore del Cinquecento che esprime la sua incondizionata fedeltà a Michelangelo, tanto da essere il paradigma della «Maniera» toscana, che vuol dire l’ispirazione diretta dal maestro.

Sia pure nella tormentata e controversa interpretazione che ci descrive, tra dubbi e pathos, Giorgio Vasari, raccontando gli ultimi dieci anni di attività di Pontormo nel coro di San Lorenzo, con il controcanto di quel mirabile diario degli ultimi due anni di vita (1554-1556) che è Il libro mio, testo scarno e pieno di appunti di vita quotidiana, da cui emerge comunque una personalità bizzarra e disturbata: «Ma io non ho mai potuto intendere la dottrina di questa storia, se ben so che Iacopo (Jacopo Carucci, il Pontormo appunto, ndr) aveva ingegno da sé e praticava con persone dotte e letterate, cioè quello volesse significare in quella parte dove è Cristo in alto, che risuscita i morti, e sotto i piedi ha Dio padre che crea Adamo et Eva. Oltre ciò in uno de’ canti dove sono i quattro Evangelisti nudi con libri in mano, non mi pare, anzi in niun luogo, osservato né ordine di storia, né misura, né tempo, né varietà di teste, non cangiamento di colori di carni, et insomma non alcuna regola, né proporzione, né alcun ordine di prospettiva: ma pieno ogni cosa d’ignudi, con un ordine, disegno, invenzione, componimento, colorito e pittura fatta a suo modo, con tanta malinconia e con tanto poco piacere di chi guarda quell’opera, ch’io mi risolvo, per non l’intendere ancor io, se ben son pittore, di lasciarne far giudizio a coloro che la vedranno; perciò che io crederei impazzarvi dentro et avvilupparmi, come mi pare, che in 11 anni di tempo che egli ebbe, cercass’egli di avviluppare sé e chiunque vede questa pittura con quelle così fatte figure. E se bene si vede in questa opera qualche pezzo di torso che volta le spalle o il dinanzi et alcune apiccature di fianchi, fatte con maraviglioso studio e molta fatica da Iacopo, che quasi di tutte fece i modelli di terra tondi e finiti, il tutto nondimeno è fuori della maniera sua, e come pare quasi a ognuno, senza misura, essendo nella più parte i torsi grandi e le gambe e braccia piccole, per non dir nulla delle teste, nelle quali non si vede punto punto di quella bontà e grazia singolare che soleva dar loro con pienissima sodisfazione di chi mira l’altre sue pitture… Et insomma, dove egli aveva pensato di trapassare in questa tutte le pitture dell’arte, non arrivò a gran pezzo alle cose sue proprie fatte ne’ tempi a dietro. Onde si vede che chi vuol strafare e quasi sforzare la natura, rovina il buono che da quella gli era stato largamente donato. Ma che si può o deve se non avergli compassione, essendo così gl’uomini delle nostre arti sottoposti all’errare come gl’altri?…

E perché se morì poco avanti che al fine dell’opera, affermano alcuni che fu morto dal dolore, restando in ultimo malissimo sodisfatto di sé stesso. Ma la verità che essendo vecchio e molto affaticato dal far ritratti, modelli di terra e lavorare tanto in fresco, diede in una idropisia che finalmente l’uccise d’anni 65. Furono dopo la costui morte trovati in casa sua molti disegni, cartoni e modelli di terra bellissimi… Ebbe il Puntormo di bellissimi tratti, e fu tanto pauroso della morte, che non voleva, non che altro, udirne ragionare, e fuggiva l’avere a incontrare morti. Non andò mai a feste, né in altri luoghi dove si ragunassero genti, per non essere stretto nella calca e fu oltre ogni credenza solitario. Alcuna volta, andando per lavorare, si mise così profondamente a pensare quello che volesse fare, che se ne partì senz’avere fatto altro in tutto quel giorno che stare in pensiero».

È un giudizio fortemente critico, ma ci mette davanti a un uomo e a un carattere che nella ricerca artistica trasferisce interamente l’inquietudine e il tormento, psicologico e fisico, della sua vita. Guardiamoli allora questi disegni che irritarono Vasari, fra uova e misantropia (il 15 marzo 1556, infatti, Pontormo annota «fu pichiato [bussato] da Bronzino e poi el dì da Daniello: non so quello che si volessino)».

Lui ostinatamente disegnava, inseguiva un’ossessione. È quello che sentiamo, come un tuffo al cuore, davanti ai disegni esposti in questi giorni all’Istituto centrale per la grafica a Roma (il catalogo è di Allemandi), per volontà di Mario Scalini, valoroso e tormentato studioso che in Pontormo ritrova uno spirito affine nel temperamento e nel carattere.

A Scalini dobbiamo la riemersione del fondo di Pontormo più ricco dopo quello degli Uffizi: si tratta del lascito Corsini, costituito dai principi fiorentini e poi portato a Roma. Reso noto, quasi integralmente, dalla prima studiosa moderna a ordinare i disegni di Pontormo, Janet Cox-Rearick, il Taccuino Corsini è un monumento di libertà espressiva e di verità che chiede una sensibilità moderna per essere inteso. È quello che Scalini sembra rimproverare, nel riconoscimento della meritoria impresa di riabilitazione del grande artista fiorentino, alla lettura della studiosa americana, «tesa a interpretare l’espressività creativa estroversa, quasi si fosse dinanzi a un’opera dell’astrattismo, proponendo un modello di assunzione culturale metastorico e ancora duro a morire malgrado la sua evidente astoricità».

Scalini parla di «esercizi di lettura emozionale» e li respinge; ma vorrei, nel giudizio più riposato della storia – e oltre la mitologia della riscoperta del Libro mio» da parte di Arduino Colasanti, pubblicato da Frederick Mortimer Clapp e valorizzato (anche letterariamente) da Emilio Cecchi per confortare la leggenda vasariana del pittore solitario e intrattabile – registrare lo sconcerto e l’emozione, di astorica immediatezza, che, nelle algide e linde sale del Palazzo della calcografia ho provato davanti al primo disegno e via via vedendoli a uno a uno (e già in parte conoscendoli) come suprema e picassiana, picabiana, duchampiana, baconiana, espressione di assoluta libertà creativa.

Fuori della storia e dei pertinenti riferimenti alla produzione pittorica della piena maturità (1517-1537), come attesta Alessandro Cecchi, e comunque prima della deprecata impresa di San Lorenzo nella lettura di Vasari, la sensibilità di Pontormo, intensivamente deformando, interpreta un’esigenza che si può ben dire contemporanea, emozionante, instabile, inquieta, più di quanto si provi davanti ai disegni, così ragionevoli, di Leonardo, Raffaello, Michelangelo stesso.

Pontormo è così antiaccademico e destrutturato da non risultare mai tipico. Libero anche negli studi per nudi anatomici, mossi e caldi come i più vibranti di Tintoretto, sorprendentemente; ma con una palese allucinazione, uno stordimento, una profonda dissociazione. Nessuno come Pontormo soddisfa il principio della sregolatezza che sembra proprio dell’artista d’avanguardia. E così il Diario viene utilizzato non solo per parlare delle inquietudini del pittore manierista, ma più in generale per avvalorare la tesi (seducente, ma discutibile) che per essere artisti si debba essere anche afflitti da patologie di carattere psichico, più o meno accentuate. Pontormo, il Pontormo di Vasari, era perfetto per questo ruolo.

Lo ammette infine, nel suo bell’intervento conclusivo, Gabriella Pace che, mentre descrive i 26 fogli di Pontormo del fondo Corsini, annota le osservazioni dell’artista nel «Paragone» tra pittura e scultura: «La cosa in sé è tanto difficile che non la si può disputare né risolvere, perché una cosa sola c’è che è nobile, che è el suo fondamento, e questo si è el disegno». Da qui discendono le conclusioni, in contrasto con il severo storicismo di Scalini, e più vicine alla «sregolatezza» evocata da Giorgio Marini: «Si delinea nel Taccuino un diario visivo che con lungimiranza visionaria anticipa, in prospettiva storica, le esplorazioni degli aspetti più profondi e inconsci cui approderanno le avanguardie artistiche del Novecento». Nello stesso disegno la studiosa riscontra, alla Bacon, e con maggiore intensità, «come un suono percussivo», un processo di simultaneità: «l’immagine che sopravviene dissolvendo la precedente». Come che sia, l’emozione è fortissima; e in questi disegni Pontormo si manifesta contemporaneo come nessuno.

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