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Pink washing. Quando la parità di genere in politica è solo a parole

Pink washing. Quando la parità di genere in politica è solo a parole

I partiti di opposizione si fanno grandi di nobili principi come l’inclusività e il femminismo. Peccato che loro per primi esprimano nei fatti ciò che vorrebbero combattere: in quelle formazioni comandano – senza se e senza ma – gli uomini.


L’inconsolabile Eleonora Evi si rincuori. Non è l’unica valorosa compagna diventata «marionetta del pinkwashing». La «donna di facciata» scelta dal maschilista. «La foglia di fico» del patriarcato politico. Il suo centrosinistra è all’avanguardia nel risciacquo rosa: farlocca parità di genere a favor di benpensante. Quella che il centro destra ha davvero realizzato con Giorgia Meloni, prima donna a Palazzo Chigi. Massimo scorno. E adesso lo straziante addio della co-portavoce dei Verdi. Evi si dimette dopo aver accusato Angelo Bonelli, spadroneggiante parigrado, di aver costruito «un partito patriarcale». Lì fuori, intanto, il progressismo tricolore s’intesta la lotta contro il sessismo. Concomitanza spiacevole. Proprio lui: Bonelli. Il fustigatore. L’ecotalebano. Propone di ammanettare chi contesta il catastrofismo climatico. Sarebbe recidivo, tra l’altro. Pure Simona Saraceno, altra co-portavoce, stavolta nel Lazio, lascia per l’imperante bonellismo: «A sinistra la cultura patriarcale è nascosta».

Pinkwashing al cubo, insomma. Anche il presunto despota verde, però, si consoli. L’opposizione pullula di testosteronici leader che invocano la parità di genere solo a parole. Prendi Matteo Renzi. Già premier e segretario del Pd, a fine 2019 fonda Italia viva. Promette: «Una casa giovane, innovativa e femminista». Annuncia, per ogni incarico, una logica ferrea: «Donna e uomo, uomo e donna». Biasima i trogloditi: «Il maschilismo politico italiano è molto resistente. Le donne vengono considerate con condiscendenza o solo per evitare troppe recriminazioni. Una misoginia incredibile».

Matteo non perde tempo. Nomina Teresa Bellanova co-presidente di Italia Viva, assieme a Ettore Rosato. A dicembre 2022 vengono entrambi sostituiti dall’illuminato leader. Che, lo scorso maggio, fa poi approvare un nuovo statuto, forse ispirato alla «democrazia» saudita, di cui è acclamato consulente. Il nuovo presidente resterà in carica cinque anni, può essere rieletto, rappresenta Italia Viva, dirige il partito, presiede le riunioni dell’assemblea, spadroneggia nel congresso. Dopo una serrata battaglia tra sé e sé stesso, viene acclamato l’unico candidato alla presidenza: Matteo d’Arabia, ovviamente.

Elena Bonetti, stufa dell’autarchia, tre mesi fa decide allora di abbandonare il partito. Renzi commenta: «La gratitudine non è una categoria della politica». Il fido Francesco Bonifazi, tra i più virili nel parlamento, azzanna la fuggiasca: «Eri una professoressa associata di matematica a Pavia: senza un voto, grazie a Renzi, hai fatto l’onorevole e la ministra». Delle Pari opportunità, tra l’altro. Che didetta. L’apice del pinkwashing trasformato nel più truce «bullismo». «Da quando ho fatto la scelta di lasciare Italia Viva, i miei social sono costantemente invasi di insulti volgari, violenti e sessisti dei tuoi sostenitori» replica Bonetti rivolgendosi a Renzi. «Finora nei tuoi discorsi non ti ho sentito spendere una sola parola di presa di distanza da questo odio social».

Poco male. La deputata annuncia un ticket con Carlo Calenda, leader di Azione, ancor più egotico di Matteo. Auguri. Nel frattempo, si accontenta di essere tra le fondatrici di un correntone rosa con Mariastella Gelmini e Mara Carfagna, ex ministre berlusconiane già arruolate in Azione. L’hanno chiamato Manifesto del popolarismo. Si farà, Calenda permettendo. Le due storiche azzurre, straripanti in epoca draghiana, sembrano pressoché scomparse. Eppure Carfagna è presidente di Azione. Nominata al posto del senatore Matteo Richetti, ingiustamente accusato di stalking.

A parzialissima discolpa: Verdi, Italia Viva e Azione hanno percentuali esigue. C’è spazio solo per un galletto, magari. I Cinque stelle, invece, insinuano il primato del Pd nella coalizione. Eppure Giuseppe Conte, altro vanitosissimo maschio alfa, è più solo al comando di Fausto Coppi. Potrebbe almeno dividere l’incombenza con Paoletta Taverna: vicepresidente del partito, vicario per di più. Già, chi l’ha vista? Che fine ha fatto l’ignota segretaria di poliambulatorio diventata poi sciantosa numero due del Senato? Sparita anche lei. Conte invece è uno, bino e trino. L’ex premier in pochette non manca ormai una piazza. Comprese quelle contro il patriarcato. Microfono sotto il naso, ricorda: «Il tema della violenza sulle donne e delle misure di prevenzione il Movimento lo ha affrontato concretamente e da sempre».

Resta ancora molto da risciacquare, in realtà. Il fondatore Beppe Grillo, adesso garante, viene considerato un alfiere del sessismo. Breve rassegna. Nel 2012 redarguisce la consigliera comunale di Bologna che osa comparire nei talk show: «La tv è il vostro Punto G». Nel 2014 si scaglia contro l’allora presidente della Camera, sobillando gli attivisti: «Cosa fareste da soli in auto con la Boldrini?». Nel 2016 svillaneggia la renziana Maria Elena con un hashtag: «#Boschidovesei in tangenziale con la Pina?». Cinque anni dopo, la deputata di Italia Viva si vendica commentando il video in cui l’Elevato tenta di assolvere il figliolo Ciro dall’accusa di stupro: «Le sue parole sono piene di maschilismo».

Biasimo che, apparentemente, non può essere certo rivolto al Pd. È l’unico partito dell’opposizione che vanta una segretaria donna, multigender persino: Elly Schlein. Ma al Nazareno pure i sanpietrini sanno che deve la sua elezione al sommo Dario Franceschini: colui che da sempre rimesta, assembla, detronizza. Dopo i grigissimi Nicola Zingaretti ed Enrico Letta, bisognava dare un segnale di cambiamento. E chi meglio di Elly? Adesso però le europee incombono. Se dovesse racimolare meno del venti per cento, Franceschini potrebbe riesumare l’usato sicuro: Paolo Gentiloni.

Anche gli innegabili sforzi della segretaria sulla parità di genere non pagano. Il partito resta nella salde mani dei soliti potentoni: Franceschini, Lorenzo Guerini, Andrea Orlando. Vincenzo De Luca, spumeggiante governatore campano, compendia: «Dietro “Elena” Schlein ci sono tutti i capicorrente: quelli che stavano in segreteria, quelli che erano nel governo. Li vedo passeggiare di nuovo sulla scena politica come turisti svedesi, capitati qui per caso». Comunque sia: il Pd non ha una governatrice. E nemmeno una sindaca, nelle grandi città. Elly, in vista delle prossime tornate, è pronta a rimediare. Un’altra centrifuga di pinkwashing. A Firenze la candidata a succedere a Dario Nardella è così la sua sponsorizzatissima vice: Sara Funaro, nipote d’arte dell’ex sindaco Piero Bargellini. Scelta però senza passare dalle primarie. «È stata calata dall’alto dai capi corrente, tutti uomini» svelena Cecilia Del Re, aspirante sfidante.

Gli indomiti di +Europa, invece, nemmeno ci provano. Leader: l’ubiquo Riccardo Magi. Presidente: il cangiante Federico Pizzarotti. Segreteria: su diciotto membri, appena quattro donne. In definitiva, l’unica sigla progressista che ha pienamente realizzato l’uguaglianza tra sessi è Sinistra italiana. Il partito è federato con quello di Bonelli. Ma l’apertura verso il genere femminile, a differenza dei sodali, è encomiabile. Segretario: Nicola Fratoianni, uno che non ha certo bisogno di presentazioni. Coordinatrice nazionale: Elisabetta Piccolotti, già portavoce dei Giovani comunisti e assessore alla cultura di Foligno.

Alle ultime politiche viene candidata alla camera per l’Alleanza-Verdi sinistra. Seggio sicuro, malignano gli invidiosetti. La folignate Betta è seconda in lista a Lecce, dopo Bonelli. Stessa posizione a Bari, dietro l’ultragarantito sindacalista dei braccianti Aboubakar Soumahoro, poi caduto in disgrazia dopo l’inchiesta sui presunti maneggi familiari nell’accoglienza ai migranti. Transitato infine nel misto, attacca la premiata coppia Bonelli&Fratoianni: «Va bene se sei un nero da cortile. Il salto di qualità disturba». Blackwashing, insomma. Si aggiunge alle ultime accuse di pinkwashing scagliate da Evi, ancora contro il patriarca verde.

Fratoianni, invece, no. La parità di genere ce l’ha nel cuore. Piccolotti, come da programma, alle scorse politiche viene eletta in Puglia. Da quel momento, la sua ascesa diventa irresistibile. Se l’ex co-presidente dei Verdi accusa adesso di venir «puntualmente esclusa dai palinsesti», la collega è ormai la virago televisiva del proletariato. Ecco: tutto si può dire del fumantino Nicola, ma patriarcale proprio no. Basta chiedere conferma proprio a Betta, sua fortunata consorte da quattro anni.

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