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Polesine, la grande acqua

Polesine, la grande acqua

Un territorio enorme invaso dal Po, un centinaio di vittime, 180.000 sfollati, un dramma umano che diventa emigrazione. L’incrocio perverso tra dissesto idrogeologico e burocrazia italiana comincia 70 anni fa, una notte di novembre del 1951.


L’acqua del Po cominciò a filtrare dall’argine di sinistra che stava sopra Rovigo. All’inizio, poco più di un rigagnolo, poi un torrentello e infine un’onda continuamente alimentata dalla corrente di un fiume, gonfio come raramente era accaduto. Avvenne tutto rapidamente – non più di 25-30 minuti – e non si può nemmeno dire che si trattasse di un evento inatteso. Da giorni, la gente era costretta a constatare con apprensione come il livello del Po stesse crescendo fino a superare largamente il livello di guardia.

Il 14 novembre 1951- 70 anni fa – quando la sera già stava diventando notte, la corrente del fiume ruppe i terrapieni che costringevano l’acqua nel suo alveo. In quattro ore il Polesine si trovò sott’acqua. Il cielo aveva continuato a vomitare pioggia che finì per «caricare» il Po di oltre 12.000 metri cubi d’acqua al secondo.

Una montagna liquida impensabile di rallentare e impossibile da frenare. Onde violente, alte anche tre metri, travolsero tutto quello che incontrarono fino a sommergere 150 mila ettari di terra buona che stavano a «quota depressa» rispetto al fiume. Arrivarono alle periferie di Adria e di Rovigo. Le precipitazioni erano state eccezionali ma, come sempre, l’imprevidenza, la burocrazia e i lavori di sostegno degli argini che continuavano a essere rimandati esposero al pericolo un’intera provincia. Nulla cambia: allora come oggi c’era il problema della manutenzione del territorio e del dissesto idrogeologico.

La gente del posto si rese immediatamente conto che, quella volta, il Po non si sarebbe fermato da solo. Conoscevano «il grande fiume». Quell’acqua era una specie d’industria naturale che dava da mangiare e da lavorare. I pescatori vivevano fra le onde. I mulini prendevano energia dalla corrente. E l’irrigazione era garantita da un bacino praticamente inesauribile. Ma una cosa avevano imparato fin da subito. Che quella forza della natura non andava sottovalutata. Le onde che pigramente correvano verso l’Adriatico potevano trasformarsi in una minaccia mortale. Insomma: il Po andava rispettato. Non proprio come il dio pregato dagli antichi padani. Ma quasi.

Per questo, ogni comunità s’impegnava a ripristinare gli argini quando, quel paio di volte all’anno, in primavera e autunno, la violenza della corrente li danneggiava. Ma si trattava di sassi e terra. Per assicurare un contenimento certo occorrevano cemento, ghiaia e costruzioni fisse. Servivano finanziamenti statali che – ogni volta promessi – venivano periodicamente rimandati. In quell’occasione, si misurò la distanza che correva fra la vitalità economica che l’animava e l’inadeguatezza delle strutture la cui carenza si trascinava da decenni.

L’Italia, uscita dalla guerra, stava conoscendo uno slancio imprevedibile che faceva gridare al «miracolo», ma i risultati di una produzione gagliarda poggiavano sulla spontaneità dei singoli e, non di rado, sulla loro improvvisazione. Mentre – anche con un pizzico di illusione – ci si appassionava di progetti tecnologici d’avanguardia, nel Polesine tentavano di proteggersi dagli eccessi della natura a colpi di badile e a secchiate di terra battuta. Quelle difese erano appena sufficienti per una «piena» normale. Non per una straordinaria.

In quel novembre 1951, la gente del posto si rese conto subito che le barriere si sarebbero rivelate insufficienti. Sotto una poggia a volte sferzante, lavorarono per riempire sacchi di argilla e addossarli alle barriere maggiormente sotto pressione. Tentativo che, più che velleitario, si rivelò impossibile. Nel cuore della notte, fra il 13 e il 14 novembre, si diffuse la voce che a Bergantino – la cittadina più a occidente del Polesine – l’argine aveva ceduto. Allarme gratuito. La notizia non era vera ma il passa parola accreditò l’immagine di un pericolo imminente.

Chi la ferma l’acqua? La piena, fuori dall’alveo naturale del fiume, si sarebbe riversata per strade e compagne. I volontari che stavano lavorando sugli argini più a oriente – sul tratto fra Occhiobello e Canaro – temettero di essere presi in mezzo dall’alluvione che, stando alle voci, stava arrivando loro addosso. Sembrò più prudente allontanarsi dalle sponde con il risultato che le erosioni dell’argine, privo anche di quelle protezioni artigianali, collassò, lasciando la marea dilagasse. Sembra certo che la prima frana avvenne al Vallone di Paviole, nel territorio di Canaro. Quasi contemporaneamente una seconda rottura, a Bosco, due chilometri e mezzo più in basso, nel comune di Occhiobello. Una terza falla, conseguenza delle altre due, riguardò Malcantone.

Quando venne presentata la relazione sull’accaduto, i tecnici stimarono che le falle consentirono l’uscita di 7.000 metri cubi al secondo. In pratica: i due terzi dell’intera portata del fiume. A oggi, quell’alluvione è classificata come la più grande e la più estesa del tempo contemporaneo, cioè da quando esiste memoria e registrazione scritta degli avvenimenti. Tremende le conseguenze.
Quaranta passeggeri che stavano viaggiando in pullman furono sorpresi dalla prima ondata. L’acqua li trascinò per qualche chilometro senza lasciare loro scampo. Ed è evidente che, senza gli allarmi che, da giorni, tenevano in allerta i polesani, il bilancio finale sarebbe stato assai più tragico del centinaio di vittime che si dovettero contare alla fine.

La rottura degli argini, di fatto, deviò il corso del fiume. L’acqua non seguì più il suo tracciato naturale ma continuò a riversarsi nella campagne. Le istituzioni non riuscirono a intervenire con tempestività. I mezzi erano quelli che erano. Le comunicazioni o interrotte o frammentarie. Ma, soprattutto, la gestione dell’emergenza richiedeva professionalità che non esistevano. Le prime indicazioni sul da farsi vennero dal capo del Genio civile di Rovigo, ingegner Mario Sbrana.

Segnalò che occorreva aprire un varco alla Fossa Polesella rimuovendo una mezza montagna di detriti che la corrente aveva trasportato. Quello era l’ostacolo che impediva al Po di andarsene speditamente verso il mare e spingeva l’acqua fuori dall’alveo. Poiché il terreno intorno era un immenso acquitrino fangoso e impraticabile, via terra, si trattava di usare l’aeronautica per bombardare l’ostacolo.

Una vera azione di guerra. Il prefetto di Rovigo Umberto Mondio era stato nominato l’11 ottobre, arrivando in città giusto un paio di settimane prima dell’inondazione. Aveva poca conoscenza dei luoghi e nessuna dimestichezza con questioni idrauliche. Il progetto gli parve spropositato. A confortare le sue perplessità si formò un «partito del No» – che sempre spunta con l’emergenza – formato da un buon gruppo di sindaci del territorio.

Chi si opponeva riteneva che, in breve, la natura stessa avrebbe sistemato le cose tornando al «prima». Invece, dalle falle degli argini, continuò a fluire acqua che si alzò di livello in paesi già inondati. La gente si rifugiò sui tetti. Salì in cima ai campanili delle chiese: chi disponeva di una barca fece la spola fra un’abitazione e l’altra per portare aiuto, fosse anche solo una parola di solidarietà.

Le polemiche locali trovarono un riscontro nazionale. A Roma, il presidente della Repubblica era il liberale moderato Luigi Einaudi e Alcide De Gasperi guidava il governo come presidente del Consiglio. Dopo l’esperienza «unitaria», nell’immediato dopoguerra, che aveva portato il leader comunista Palmiro Togliatti a occupare la poltrona di ministro Guardasigilli, il Pci – il partito comunista – era stato scaricato e mandato all’opposizione.

L’alluvione del Polesine fece da detonatore a uno scontro fra maggioranza e opposizione. In una regione «bianca» a stragrande maggioranza democristiana, la provincia di Rovigo era «rossa» con la maggior parte degli amministratori di sinistra. I comunisti da Roma accusarono il governo di disinteressarsi di quella gente che gli era politicamente contraria e di muoversi con lentezza a bella posta.

Fu necessario attendere il 24 novembre perché il prefetto e i sindaci del No si convincessero che occorreva fare saltare le barriere che impedivano all’acqua di defluire verso il mare. Non impiegarono l’aviazione. Con un’azione di commando, con mezzi di fortuna, riuscirono ad avvicinarsi a quella specie di diga. Utilizzarono 5.000 chili di tritolo che polverizzarono gli ostacoli liberando l’acqua.
Il clima che si venne a creare è stato mirabilmente descritto da Giovannino Guareschi in un episodio di Peppone e don Camillo che si rifece proprio all’inondazione del Po.

La chiesa con mezzo metro d’acqua. Gli spostamenti su zattere da spingere con un paranco per strade dove prima si muovevano carri e motociclette. E la gente che aveva perso tutto, con poche cosa avvoltolate in un fagotto, in cerca di altre sistemazioni. Cosa potevano fare in quelle terre – le più povere in assoluto – con campi destinati a rimanere infruttuosi per anni? Emigrarono in 80.000 soprattutto nelle regioni del Nord e si fecero onore. Perché era gente che conosceva la fatica e non aveva paura di lavorare.

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