La vecchia arma di lotta sindacale, oltretutto con mascherine e distanziamento, appare oggi più spuntata che mai. Più facile ottenere il rinnovo dei contratti scaduti da anni con altre strategie, tra intese individuali e «l’aiuto» dell’emergenza Covid.
Non tutto il Covid viene per nuocere. Giovedì 8 ottobre, oltre 100 mila lavoratori della sanità privata si sono visti riconoscere gli stessi diritti di quella pubblica e hanno avuto il contratto collettivo. Ci sono voluti 14 anni. Le trattative dei sindacati con l’Aiop, l’influente organizzazione delle cliniche e degli ospedali privati, e con gl’inflessibili padroni della sanità religiosa (raccolti nell’Aris, Associazione religiosa istituti sociosanitari, 50 mila dipendenti e 26 mila posti letto), sono durate tre anni e hanno richiesto vari scioperi. L’ultimo dei quali, forse decisivo, il 16 settembre. Ma certo, senza la pandemia cinese da contrastare lavorando al capezzale dei malati al massimo delle proprie possibilità, non ci sarebbe stato il consenso politico per arrivare a questo risultato.
Fuori dagli ospedali oltre 10 milioni di lavoratori tutelati, su un totale di 19 milioni tra pubblico (3,3 milioni) e privato (15,7), stanno aspettando il rinnovo dei contratti nazionali scaduti. Il presidente della Confindustria, Carlo Bonomi, è socio di minoranza di una piccola società che fornisce apparecchiature elettromedicali, ma ha le idee chiarissime anche sul futuro del contratto più importante, quello che riguarda un milione e mezzo di operai metalmeccanici ed è scaduto da 10 mesi. Il primo ottobre ha impartito la linea ai colossi di Federmeccanica: «Aumenti salariali sono impensabili perché siamo in recessione e ci sono aziende che hanno perso il 70 per cento».
Nelle stesse ore, ironia della sorte, i giornali del gruppo Gedi, controllati dalla famiglia Agnelli-Elkann, erano costretti a minimizzare un aumento delle vendite del 9,5 per cento (Fca +17,5 per cento) nel mese di settembre, spiegandolo con gli incentivi statali e l’auto elettrica, non esattamente inventata ieri. Immediata la risposta dei rappresentanti dei lavoratori, con la segretaria della Fiom-Cgil, Francesca Re David, che il 1° ottobre ha avuto un riflesso condizionato: «Gli industriali non posso chiedere la pace sociale a costo zero». Un modo per dire che si rischia un autunno di scioperi e agitazioni. Ma in tempi di distanziamento fisico e non solo, anche l’arma dello sciopero andrà ripensata. Anche lo sciopero, del resto, non è a costo zero. Pesa sulle buste paga dei lavoratori e imballa un sistema produttivo italiano che è meno dinamico dei concorrenti.
Già, il Covid-19 come misura di tutte le cose. Causa di commesse sfumate e fatturati che crollano, come ricorda correttamente Confidustria. Ma anche di un ricorso sfrenato agli straordinari in tante aziende, che zitte zitte producono a ciclo continuo. Negli stabilimenti italiani di Fca, tra auto ecologiche e produzione di mascherine, a fine settembre si è tornati alla piena occupazione, dopo anni di cassa integrazione e contratti di solidarietà.
Il dibattito sull’aumento di produttività propiziato dall’estendersi dello smart working ha tenuto banco durante la quarantena della scorsa primavera. Tagliare uffici sterminati e spese generali può essere un bel risparmio. Così come è decisamente vantaggioso ottenere prestazioni quasi h24 ed evitare che i dipendenti socializzino troppo tra loro, magari scambiandosi informazioni e opinioni sulle condizioni di lavoro. Prima della pandemia i lavoratori a distanza erano non più di 600 mila. Ma nelle settimane di lockdown si è arrivati a oltre otto milioni e Maurizio Landini, segretario della Cgil, il 28 maggio aveva annunciato che sarebbe stato necessario, dopo l’emergenza, «contrattare l’innovazione» e stabilire sindacalmente «come si agisce sul piano contrattuale per affrontare e tutelare questa nuova situazione».
Un’ipoteca da brivido. Quasi un funerale anticipato. Ma in quest’autunno, lo smart working è già diventato un tema per i soliti convegni inutili e le lotte sindacali si fanno alla vecchia maniera. Dopo l’estate, stime datoriali parlano ancora di circa cinque milioni di lavoratori «agili». Molti di loro non stanno utilizzando la legge del 2017, bensì il regime semplificato che il governo Conte ha autorizzato con lo stato di emergenza, prorogato fino al 31 gennaio 2021. Le aziende che vogliono davvero incentivare lo smart working stanno facendo accordi alla spicciolata e senza approfittare dell’emergenza. Le intese sindacali possono essere cornici generali, ma poi tutto si gioca a livello individuale.
E questo, non meno della difficoltà pratica di organizzare uno sciopero con mascherine e distanziamento fisico, aiuta a capire perché attentare alla «pace sociale» sarà sempre più complicato. Anche in un’Italia che rischia di chiudere il 2020 con un Pil in calo del 9 per cento e la cui coesione sociale è garantita da una bolla occupazionale creata dal divieto di licenziare per motivi economici.
Solo nel terziario, ci sono cinque milioni di lavoratori con il contratto collettivo scaduto e chi va dicendo che solo il comparto sicurezza è in crescita (è vero, ma nel pubblico) forse ignora che tra quelli più arrabbiati ci sono 60 mila guardie giurate. Sono senza contratto anche i dipendenti del comparto alimentare (oltre 400 mila), che non ci ha fatto mancare il cibo in tavola neppure con la quarantena. E lo stesso vale per i lavoratori del tessile e della moda (altri 400 mila) e del legno-arredo (250 mila), che aspettano il contratto da 18 mesi e il 13 novembre sciopereranno in tutta Italia. Una guerra sindacale a colpi di scioperi nei settori che più esportano sarebbe micidiale, in piena recessione, e per questo servirebbe un governo autorevole e capace di mediare.
Lo sciopero è ritenuto uno strumento sorpassato da anni, ma paradossalmente la sequenza di leggi che negli ultimi vent’anni hanno limitato l’esercizio di questo diritto potrebbe dimostrare che evidentemente funziona. O fa paura. Lunedì 5 ottobre, la cosiddetta pace sociale è tornata anche alla Berco, azienda della carpenteria pesante che fa parte del gruppo tedesco ThyssenKrupp. L’azienda ha ritirato per i prossimi due anni le richieste peggiorative sul contratto integrativo che riguardavano 1.600 dipendenti tra Copparo (Ferrara) e Castelfranco Veneto. Sono state necessarie 40 ore di sciopero e altre 56 ore di fermo a oltranza.
Quando il padrone è straniero, meglio se tedesco, va detto che le battaglie dei lavoratori trovano maggiore solidarietà e attenzione da parte dei politici nostrani. Ilva di Taranto, Whirlpool, Jindal Piombino, Embraco, Bekaert: tutte crisi aziendali dove dall’altra parte della barricata (e già il termine è sbagliato) ci sono multinazionali.
Nella prossima primavera sarà interessante vedere che cosa accadrà nei sei stabilimenti italiani del gruppo Fca, dove lavorano oltre 80 mila persone che a febbraio hanno incassato un premio di produttività da 1.350 euro.
La fusione con Psa Peugeot affida le chiavi della gestione, personale compreso, ai francesi e al loro manager portoghese Carlos Tavares, solida fama di tagliatore di teste. Oltre quest’autunno più o meno caldo, è lì che si vedrà la forza del sindacato italiano. Considerando la potenza di fuoco editoriale che ha messo insieme John Elkann con l’acquisizione anche di Repubblica, si spera di non dover assistere a uno scontro combattuto a colpi di scioperi da un lato, e di fake news dall’altro. Non servono più i giornali, non servono gli scioperi, ma anche nella più grande azienda italiana siamo sempre lì: la pace sociale richiede masse di manovra da orientare e spostare.