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Origini di una nazione: alla conquista di Roma

Origini di una nazione: alla conquista di Roma

20 settembre 1870: la presa di Porta Pia. Centocinquant’anni fa il Regno d’Italia trovava la sua capitale, ma cominciavano anche i problemi. Come racconta una firma di Panorama, anticipando il suo libro sulle vicende della città durante il Risorgimento.


A dedicare almeno un tratto di strada al 20 settembre sono 4.550 comuni italiani (su 7.914). Richiamo storico per il giorno del 1870 – fanno 150 anni – quando le cannonate del generale Raffaele Cadorna sfondarono Porta Pia consentendo ai bersaglieri di irrompere in Roma. Quel giorno segnò la fine del potere temporale del Pontefice e il concretizzarsi dell’ideale che voleva in quella città la nuova capitale. Un avvenimento addirittura epico per la retorica nazional-popolare ma che, con il tempo, deve aver perso valore. Quest’anno, il 20 settembre si vota per il referendum e per le regioni in scadenza di mandato. Del resto, anche nel 1870, i primi entusiasmi si trasformarono in malumore.

Pio IX, in Vaticano, si alzò di buon’ora, pregò, celebrò la messa e ricevette il corpo diplomatico cui offrì sorbetti di frutta. Intendeva rendere evidente il sopruso cui lo esponeva il governo italiano, ma pretese che non si versasse sangue inutilmente. Dette disposizione perché i suoi reparti si arrendessero alle prime avvisaglie di fuoco. I «papalini» obbedirono con riluttanza e non abbassarono le armi proprio subito costringendo i bersaglieri a un vero e proprio assalto. Che, tuttavia, risultò poco più che un’esercitazione. Il giorno dopo, a Porta Pia, per dare l’idea di una battaglia fotografarono dei soldati che si sdraiarono a terra fingendosi morti.

Raffaele Cadorna pubblicò un resoconto sulla conquista di Roma che lui aveva diretto ma i libri tornarono invenduti alla casa editrice e il generale – che, come tutti i Cadorna non difettava di autostima – se ne ebbe a male. Il 20 settembre 1870 definì una contesa ultradecennale per il governo di Roma. Fin dagli anni Quaranta – 1840 – i patrioti spingevano per un Vaticano tricolore. Al soglio di Pietro era stato eletto Giovanni Mastai Ferretti, Pio IX appunto, che per il fatto di aver prevalso sul candidato conservatore fu considerato un progressista. Lui avrebbe voluto essere un papa moderno ma si trovò a essere arruolato nelle fila del Risorgimento. Patriota, «a sua insaputa». Quando l’equivoco risultò evidente, la folla di Roma si agitò e Pio IX abbandonò la capitale per rifugiarsi a Gaeta, ospite del re di Napoli.

Furono i mesi della repubblica di Mazzini, Armellini e Saffi, con Garibaldi a guidare i reparti armati. Quell’esperienza si trasformò in «fallimento di successo» perché si sciolse davanti alle divisioni francesi, ma lasciando in eredità un’immagine di coraggio fisico e di accortezza politica. Come solo le sfide all’utopia consentono, sembrò un sogno cui bastava poco per ottenere concretezza.

Nel frattempo il Piemonte andò brigando per diventare Italia. Ad aiutare i Savoia, scese in campo l’imperatore del francesi Napoleone III che sconfisse gli austriaci a Solferino e San Martino (nella Seconda guerra d’indipendenza), lasciò fare quando i Mille di Garibaldi aggredirono il Regno delle Due Sicilie con i piemontesi che si appropriarono di Marche e Umbria e si propose come mediatore (nella Terza Guerra d’indipendenza) perché potessero acquisire anche il Veneto. Però giù le mani da Roma.

Napoleone III si ricordava dei suoi anni da carbonaro, impegnato nella lotta per l’indipendenza dei popoli, contro le tirannie. Però non poteva nemmeno dimenticarsi di aver conquistato Parigi appoggiandosi al blocco sociale dei cattolici che – senza «se» e senza «ma» – stavano dalla parte del pontefice. I vari presidenti del Consiglio che succedettero a Cavour (morto il 6 giugno 1861), Ricasoli, Rattazzi, Farini, Minghetti, La Marmora tentarono di replicare la sceneggiata con cui Garibaldi si era impadronito del Sud. Ma in quel 1860 l’Europa si era voltata dall’altra parte, mentre per Roma non accettava compromessi.

I tentativi – uno più goffo dell’altro – sembrarono la parodia di un pièce di teatro e naufragarono sull’Aspromonte e a Mentana. Nel 1870, la Francia si trovò a combattere contro la Prussia che dopo aver conquistato la leadership dei Paesi tedeschi voleva imporsi nell’intera Europa. Napoleone III aveva i suoi grattacapi in casa e non aveva possibilità di insistere nella difesa del papa. Perciò l’Italia, assicurando che lo scopo era pacifico, fece guerra allo Stato della Chiesa e perché fosse proprio chiaro che non si trattava di iniziative bellicose, non dichiarò nemmeno la guerra che si apprestava a fare.

Si alzarono bandiere e vessilli perché Roma poteva diventare capitale d’Italia e, tuttavia, fin dall’inizio, fu una delusione. Chi l’aveva conquistata e chi si era speso per farsi conquistare duravano fatica a sopportarsi. Come accomodare caratteri così distanti? Sgherri, i romani, anche se devoti alla Madonna «de noantri», allegroni e lunatici, rugantini e perdigiorno. Formali e riservati, quegli altri, abitudinari e seriosi, tanto da sembrare la caricatura del Monsù Travet, disegnato nei racconti di Vittorio Bersezio.

A Roma, a essere rigorosi, erano arrivati gli italiani perché la Nazione, a colpi di conquiste e di plebisciti farlocchi, esisteva da una decina d’anni ma la classe dirigente – militari e burocrati – stava saldamente nelle mani dei piemontesi. E, fra loro, in larghissima maggioranza, gente di Torino. Non si capivano nemmeno. «Questi pè fatte annamo, fanno andùma /per dì che famo, dicheno fùma /per divve addio, dicheno cerea… / E sò tajani ‘sti cianfrujoni?», si chiedeva il poeta romanesco Luigi Zanazzo.

I cittadini aumentarono di 15 mila unità: cavalleggeri e lancieri, carabinieri e impiegati dello stato, alti e meno alti burocrati, parlamentari e ministri con il piccolo esercito di portaborse. Servivano 40 mila stanze ma il municipio riuscì a recuperarne soltanto 500 per cui, con decreto governativo, venne ordinato l’esproprio dei palazzi e la coabitazione degli sfrattati. Minacce di carta. Le autorità non disponevano nemmeno degli organici per censire gli stabili. E, comunque, ancor prima dei mezzi, a mancare erano proprio le stanze.

Occorreva costruire, raddoppiando il volume abitativo. Come non approfittarne per speculazioni su larga scala? I terreni per mettere mano ai lavori stavano nelle mani di una dozzina di famiglie dell’aristocrazia. Ognuno badò agli affari propri ma, dovendo proporre una classifica, quanto a interessi immobiliari il posto dell’eccellenza toccava di diritto a monsignor Francesco Saverio De Mérode che, per gli incarichi che aveva ricoperto in passato, merita anche il titolo di principe dei voltagabbana. Da Pio IX gli era stato affidato il comando dell’esercito pontificio. Per una ventina d’anni (1849-1870) sembrò intransigente, persino disposto ad accettare il martirio pur di difendere il potere temporale del papa.

I reparti alle sue dipendenze non imbracciarono le armi per finta. Alcune battaglie furono combattute fino allo stremo delle forze. E quando ogni resistenza divenne impraticabile, De Mérode accettò la sconfitta militare ma non si arrese e spostò la sua personale guerra sul fronte del tribunale civile. Pretendeva la condanna delle autorità che avevano autorizzato una scarica di cannonate in onore del Savoia, in visita a Roma. Avevano sparato dalla caserma Macao che era di sua proprietà, senza chiedergli il consenso. La querelle si fermò quando avviò i negoziati per cedere agli italiani-piemontesi i terreni che, grandi come un feudo, aveva avuto la preveggenza di acquistare. Li aveva comprati per quattro baiocchi, li vendeva a 15 lire.Per certo, si trattò del primo conflitto d’interessi di Roma capitale e, quasi certamente, del primo episodio di corruzione all’ombra del potere.

La speculazione edilizia portò a Roma migliaia di manovali in cerca di occupazione e stipendio. Nei mesi della massima espansione, gli immigrati toccarono le 40 mila unità. Un piccolo esercito di gente sfruttata che, caricandosi le spalle di mattoni, era giusto in grado di sopravvivere. Si costruirono 3.745 case per 125.542 vani e 15 nuovi quartieri che scimmiottarono l’architettura di Torino. Ogni concessione edile si portò appresso un rosario di maldicenze con un contorno di chiacchiere sulla corruzione che aveva patrocinato l’inizio dei lavori. Pratica che, passo dopo passo, diventò consuetudine.

Non ci volle molto perché venissero a galla le magagne del boom edilizio. Quando si allentò la domanda di abitazioni, i prezzi precipitarono lasciando montagne di cambiali non onorate e una quantità imponente di prestiti che non potevano essere onorati. Bancarotta. Da un giorno all’altro, i lavoratori persero impiego e paga. Indebitato per sei milioni, il municipio fu in grado di offrire a 22 mila disoccupati il foglio di via per un treno che li riportasse a casa. Altri, ai paesi d’origine tornarono a piedi. E altri ancora accettarono una vita randagia per Roma.

Per questa capitale avevano fantasticato generazioni di poeti e di intellettuali. In un coacervo composito d’idealismo disinteressato e smania per tornaconto, si confusero l’onestà dei patrioti che buttarono sangue per una causa ai loro occhi meritevole e le convenienze dei brasseur d’affaire, capaci di battere moneta anche sulla dedizione degli eroi. Diciamo la verità: con queste premesse si poteva ottenere un risultato diverso da quello che constatiamo adesso?

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