Le ire quotidiane. I narcisismi irrefrenabili. Le maleducazioni diffuse. Le passioni indicibili e l’ultima spiaggia del sesso. Dietro le virtù del Belpaese fioriscono vizi e devianze impensabili fino a pochi anni fa. Il catalogo è questo.
C’era una volta una mela. Quella del peccato originale, ovviamente. E c’erano anche i vizi capitali. Erano sette, delizia dei peccatori e fotografia della morale del tempo. Da allora sono passati secoli, gli stimoli si sono moltiplicati e gli abiti del male di aristotelica memoria si sono trasformati in vestiti sartoriali. Indossarli (restando sempre alla moda) è piuttosto semplice. Decisamente più complesso invece è tracciare il confine del lecito in una società definita liquida, poi gassosa, addirittura cupamente evanescente dopo la pandemia. Un tempo si consideravano trasgressioni quelle verso Dio e verso il prossimo – tanto che il concetto di peccato ha radice religiosa – ma dopo il prolasso spirituale si vive di stigma usa e getta, trasgressioni in continuo aggiornamento in un girone che, lungi dall’essere infernale, si rivela sempre più ambito e gettonato. «I peccati capitali di oggi» riflette Andrea Fagiolini, professore ordinario di Psichiatria all’Università di Siena, «sono legati ai nuovi comportamenti umani, facilitati dalla rapidità dell’innovazione tecnologica, dai cambiamenti sociali e culturali. Un tempo la maggior parte delle attività erano svolte in contatto diretto con altre persone, i cui commenti e giudizi erano capaci di mettere un limite alle aberrazioni. Oggi è possibile avere una vita dove i contatti sono prevalentemente virtuali e così tutto è cambiato».
Impossibile allora non addentrarsi nei meandri del contemporaneo partendo dall’oggetto più rappresentativo dell’epoca: lo smartphone, usato dal 77 per cento degli italiani. I «peccati» connessi sono molteplici e tutti legati all’astensione dalla realtà – dall’ossessione per le notifiche all’attenzione diventata così frammentata da non superare gli 8 secondi, all’induzione al tradimento – ed evidenziano una trasformazione complessiva dei rapporti, che si sono fatti artificiali e paralleli. Tra le nuove peculiarità umane c’è lo sharenting, per esempio, un inglesismo (da share, condividere, e parenting, genitorialità) per sottolineare l’ossessione dei genitori nel postare le foto dei figli. Lo fa il 75 per cento degli adulti con prole: c’è chi apre account e profili a loro nome, addirittura chi aspira a farli diventare baby influencer. E i piccoli non hanno difese. In Germania una campagna pubblicitaria di Deutsche Telekom cerca di sensibilizzare sull’argomento, in Francia c’è una proposta di legge per tutelare l’uso dell’immagine dei minori in rete, mentre in Italia il tema della dignità dei figli di fronte a masse di genitori con la smania dei social sta crescendo (non a caso l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza ha pubblicato il Manifesto dei bambini sui diritti in ambiente digitale).
Altrettanto tecnologico è il peccato degli adulti che passano ore sul cellulare (ma anche sulle consolle) a trastullarsi con i videogiochi («Oppio spirituale», l’aveva bollato il quotidiano inglese The Telegraph). Un passatempo, lecito, per oltre tre miliardi di persone nel mondo e una crescita enorme di business. Nel nostro Paese il giro d’affari è di 2,2 miliardi di euro, con un aumento esponenziale di fatturato (+30 per cento) e addetti (+50 per cento). Ma è un comportamento che a volte si fa dipendenza e che interessa circa 4 italiani su 10, con un’enorme fetta di appassionati compresi fra i 45 e i 64 anni (statistiche Iidea). Persone «grandi» insomma, che trascorrono in questo modo innocuo il loro tempo, ma spesso non amano sbandierarlo, come nella migliore tradizione del vizio. Si fa, ma non si dice.
Magari non è così, però viene da pensare che i «giochini» sostituiscano altri potenziali interessi. Come la lettura e l’informazione, oggetto di tracollo per una serie di motivi più o meno imperscrutabili. Nel 2022 erano 1,57 milioni i quotidiani venduti, nel 1990 quindici volte di più. In compenso ben 4,5 milioni di italiani si informano attraverso i social network. I dati parlano chiaro: 14 milioni ammettono di utilizzare solo Facebook (dati Censis), e 7 su 10 spiegano di fare riferimento esclusivamente a fonti gratuite (Ipsos). Solo una persona su 4 è disposta a pagare per accedere a informazioni giudicate affidabili, perché la convinzione trasversale è che sia semplice riconoscere le fake news (che intanto spopolano). «Siamo sulla soglia di un nuovo mondo, di cui fatichiamo a scorgere i confini. Proprio per questo non si può tentare di usare le categorie dei decenni passati» commenta lo scrittore Matteo Trevisani, autore del romanzo Libro dei Fulmini (ed. Atlantide). «Accanto alle modalità tradizionali, stanno nascendo modi per concepire l’informazione e lo studio. Quello che dobbiamo cercare, però, è l’educazione alla complessità e lo sviluppo del pensiero critico». Due fronti sconosciuti, però, alla scuola pubblica. Secondo un’indagine Ocse l’analfabetismo funzionale in Italia riguarda infatti circa il 28 per cento della popolazione. Uno dei dati peggiori in Europa. Reso ancora più inquietante dalla mancanza assoluta di strumenti per porvi rimedio.
Se questo è un «peccato mortale» per lo sviluppo della nostra società, altrettanto complesso è porre un freno alla maleducazione imperante, che si declina adesso in tende grandi quanto monolocali piantate in riva al mare (come accaduto in Puglia, nel Tarantino), ora in bagni improvvisati nei canali di Venezia o nelle fontane di Roma, a cominciare da quella di Trevi. «La cafonaggine è insita nel nostro Paese, un po’ come la mancanza di etica. Esemplare l’interminabile lista di atti vandalici, risse e violenze che scandiscono la nostra quotidianità. Spesso sdoganate da social» riflette l’esperta di buone maniere Miss Caterina, blogger e autrice del galateo Keep Calm e smetti di fare il cafone (Newton&Compton).
L’ira, al di là della maleducazione, ha un che di biblico eppure è di un’attualità disarmante. La rabbia quotidiana, uno dei lasciti della pandemia, degenera con frequenza e finisce nelle cronache. Titoli a caso nelle ultime settimane: «Camerota, due risse in poche ore: si picchiano davanti ai bambini. È allarme, risse in aumento». «Novara, alcol, risse e danni in aumento». «Raffica di risse nel Lodigiano». «Montalto Marina: mala movida sul litorale, risse alcol senza freni»… Lunga lista, che includerebbe i tanti episodi in cui genitori frustrati di bambini nullafacenti preferiscono aggredire maestri e professori piuttosto che prendere a scappellotti la prole, oppure gli attacchi ai medici e i pestaggi di inermi passanti, magari per scimmiottare quei video tanto popolari su TikTok e Instagram dove i campioni di Mixed martial arts si affrontano in una gabbia. La violenza è in qualche modo sdoganata sui social e il peccato è servito.
Con le nuove «devianze» si torna spesso lì, sui social. Ormai più che rispettare l’altro, il nuovo tema-guida sembra l’apparire. A costo di provocare invidia (anzi…). «Si tratta dell’odierna forma di tracotanza per eccellenza», commenta lo scrittore Yari Selvatella, in libreria con un romanzo incentrato sul lessico famigliare contemporaneo, Vite mie (Mondadori). «Anziché temere l’ira degli dèi, il propalatore seriale di selfie stimola l’ira dei suoi simili: è questo il carburante dei suoi yacht, perfino di quelli a noleggio. Desiderare di essere giovani, belli, ricchi e spensierati non mi pare una gran novità sul piano storico dei rapporti sociali. Mi sembra invece più nuova la fragilità di chi, per sentirsi qualcuno, ha un gran bisogno di provocare questi sentimenti. Se non hai qualcuno che ti odia le tue fortune non sono reali. Mai come oggi si rivela centrata l’affermazione di Marcel Proust per cui la nostra personalità sociale è una creazione del pensiero altrui».
Non a caso uno dei fenomeni del momento sono i cosiddetti «Fomo» (acronimo di fear of missing out), quelli che soffrono nel non essere a eventi o feste, o cene, visualizzati sugli altrui social e di cui non si può fare altrettanto sfoggio. C’è un po’ di cinismo generazionale, in circolazione. E sul podio spiccano gli orgogliosi childfree, che scelgono di non fare figli perché in questo modo riescono a godersi appieno l’esistenza. Stiamo parlando, secondo l’ultima rilevazione Istat, del 17,4 per cento delle donne italiane fra i 18 e i 49 anni. L’Italia si spopola, in compenso gli animali da compagnia, per meravigliosi che siano, sostituiscono gli affetti familiari (ecco che si moltiplicano i cani in perfetta salute portati in giro sui passeggini). Altrettanto allarmante è l’imperante politically correct, che oltre ad aver stravolto libri, film e cartoni animati all’insegna di una censura spesso ottusa, ridefinisce le regole della comunicazione social. E molti ragazzi sono costretti a subire. Lo spiega bene Emma C., 17 anni, studentessa milanese: «Oggi passa per peccato non supportare il mondo Lgbt+ e la cultura “woke” e se qualcuno prova a discostarsi da questo pensiero unico viene attaccato e tacciato di intolleranza o di razzismo. Ma non è così! Vorrei essere libera di dire cosa è normale per me che guardo alla realtà delle cose senza paraocchi, ma è praticamente impossibile. A peccare sono io o sono loro?».
In questo processo di normalizzazione è impossibile non citare Only Fans e il tentativo di far passare per ordinario mostrare il proprio corpo online. «Passano messaggi, visti anche dalle più giovani, in cui le “content creator” sostengono che è parte dell’essere donne libere» continua la studentessa. «Si spacciano per femministe ma lo fanno per soldi e per diventare famose, mentre a goderne sono soltanto quattro bavosi». D’altro canto il tema «sesso e device elettronici» dà vita a uno dei peccati più corposi: lasciare che i più giovani abbiano accesso al porno. Con conseguenze imprevedibili. L’ha detto chiaramente il ministro per la Famiglia Eugenia Roccella al Meeting di Rimini, parlando di una campagna di sensibilizzazione e di «sfida educativa che dobbiamo vincere e che richiede forse (…) un intervento sul controllo nei confronti della fruizione del porno da parte dei minori».
Servirebbe l’impegno dell’intera società, anche se proprio su questo tema – l’impegno – qualcosa zoppica. Tralasciando la cara accidia in salsa moderna – tradotta con la tendenza al non votare, tanto che alle ultime elezioni politiche l’affluenza è stata la più bassa di sempre, con uno sconfortante 64 per cento – è bene concentrarsi proprio sul mondo dell’occupazione, capace di raccontare due peccati opposti. In coda alla pandemia ci sono state le dimissioni di tanti (fenomeno conosciuto come great resignation), ma anche il quiet quitting, ovvero lo strisciante comportamento di chi decide di lavorare il minimo indispensabile pur portando a casa lo stipendio. Saranno altri a lavorare per loro, evidentemente, magari finendo in un altro peccato contemporaneo: il microdosaggio di sostanze psichedeliche come l’Lsd per aumentare concentrazione, creatività, energie. «In periodi di crisi come questo l’illusione di poter essere ciò che non siamo diventa più forte. Così l’uso delle sostanze stimolanti come doping per lavorare di più si fa largo. Le conseguenze però sono errori, incidenti e malori» spiega Riccardo Gatti, psichiatra e direttore del Dipartimento delle dipendenze della Asl Città di Milano. Gli fa eco Andrea Fagiolini: «Il rischio è quello di innescare cicli di comportamenti ossessivi e compulsivi, di perdere il senso critico e l’equilibrio». Insomma, non di sprofondare nel peccato. Ma di andare direttamente all’inferno.