Stiamo giocando con le figurine. Provate per un momento a silenziare le polemiche correnti e a osservare il terreno di contesa su cui si affrontano governativi e oppositori, mass media favorevoli e contrari, non solo su questioni interne ma direi soprattutto internazionali. Anche nei vertici internazionali è tutta una battaglia a colpi di fotografie: chi sta con chi, chi c’è e chi non c’è nella foto, come è collocata rispetto agli altri e nel gruppo, in foto o nel breve filmato; che umore esprime la sua faccia e la sua postura, come è vista e considerata dagli altri, la guardano oppure non se la filano. Ho usato volutamente il pronome femminile perché la protagonista principale di questa classifica fotografica, almeno da noi, è lei, Giorgia Meloni, reginetta dei fotoromanzi politici. Ma il fotoromanzo è in fondo l’unica prova dell’esistenza dell’Unione europea, che è una posa di gruppo prima che una storia comune e un progetto condiviso. Quel che conta è la foto col tavolo, o quella di gruppo in piedi. I contenuti non contano, né potremmo mai saperli, perché l’epoca delle immagini non rende tutto trasparente, visibile e comprensibile a prima vista ma al contrario: vela i contenuti con l’immagine e offre alla gente una copertina che è poi una copertura, getta in pasto un’icona, e poi tocca agli esegeti, ai dietrologi, ai fantasisti arguire cosa si saranno detti e quale sia la verità che viene fuori da quell’immagine, inerpicandosi avventatamente oltre le apparenze. La foto è la fisica del potere, il resto è tutta metafisica, e in questo caso metafisica vuol dire congettura, maldicenza, pettegolezzo, un «si dice» elevato ad analisi. Vedi la foto dei «volenterosi» con l’assenza di Meloni e i suoi nemici deducono esultanti che è stata esclusa, è isolata, non conta niente. Poi la vedi al centro della foto tra l’America e l’Europa, una persona che si è fatta Oceano atlantico, tra la sponde Vance e la sponda Von der Leyen, e i suoi fan vedono la prova evidente della sua centralità geopolitica, che in realtà è una centralità fotografica, e notano nei suoi occhi sprizzare felicità e successo, una pioggia di stelline scendono dai suoi occhi, per la precisione 51 dalla parte degli States e 27 da quella dell’Europa. Così la giudicano di secondo piano appena nelle foto di gruppo va in seconda fila; ma è difficile che questo avvenga, e non solo perché l’Italia conta e lei è cazzutella, fotogenica e briosa ma per ragioni di statura: i diversamente alti come lei, per dirla nel linguaggio corretto, stanno per forza in prima fila nella foto di gruppo. Vale dall’asilo in poi. Poi la vedi baciarsi in foto o in video con mezzo mondo, abbracciarsi, fraternizzare, sorridere complice e confidenziale coi potenti della terra, tutti sempre più alti di lei, come i papaveri della canzone di Nilla Pizzi – «Lo sai che i papaveri son alti, alti, alti e tu sei piccolina» – e la trovi simpatica e vezzosa come una puffetta, tra tanti Gargamella divenuti all’occasione amici, benevoli, cortesi; al punto da inginocchiarsi al suo arrivo a Tirana come ha fatto il gigantesco Edi Rama con un’espressione del volto e del corpo che sembra dire: «Vieni piccolina, amore di papà, vieni tra le mie braccia».
Anche le foto col Papa sono entrate in questo redditometro, vedere la faccia del Papa e quella del suo interlocutore, intercettare dal labiale, assai difficile perché il Papa ha labbra sottili. Cronometrare il nanosecondo dedicato a ciascuno, paragonarlo al tempo di Mattarella, che è l’unità di misura istituzionale. E vedere dove sono seduti i big al funerale del Papa uscente o all’investitura del Papa entrante, vicino a chi, e se si parlano, si sorridono, stanno a loro agio, al centro o ai margini della scena. La morfologia del potere assume una valenza estetica, da mimica facciale o da posa. Il carisma si è ridotto a un selfie. Lo stesso vale per Macron o Zelensky – quanti punti vale una foto con lui? Un tempo tanti, ora assai di meno, anzi a volte è una penalità. E così le foto accostate di Putin e Trump per simulare le telefonate; difficile invece trovare in foto un’espressione diversa in Xi Jinping, si può usare sempre la stessa o del decennio prima.
Un tempo c’erano i simboli politici, e contavano molto, oggi non ci sono più simboli e nell’epoca delle leadership personali, l’unico simbolo è la foto. Si fa politica a colpi di foto, larga parte delle analisi o dei like e dislike che imperversano nel tribunale permanente dei social, dipendono proprio dalla foto, dalla mimica, dai ciuffi e dalle stazze, dal modo di atteggiarsi e di sorridere. È l’immagine che precede il giudizio, anzi lo sorregge e perfino lo sostituisce, surrogando ogni contenuto. Poi tutto quello che succede dietro le quinte, tutti i colloqui telefonici e de visu, a immagini spente, non ci riguarda. Ma il photoshop non riguarda solo la politica. A Napoli, ad esempio, un giovane artista, Jr, ha coperto il Duomo con le foto di 606 napoletani. Lo ha fatto anche su altri monumenti nel mondo e si potrebbe definire fotopopulismo, il precursore è stato Oliviero Toscani. Ma il messaggio è che la religione non è il legame con Dio, tramite i santi, la Madonna e i sacerdoti, ma è il legame di ciascuno con la gente. I veri titolari e destinatari della fede sono i fedeli stessi, un po’ come l’audience in tv; e invece no, la facciata nuda del Duomo ci rappresenta tutti, le 606 facce che la coprono rappresentano solo 606 persone. I simboli veri trascendono i singoli individui, e non sono mortali.
Insomma siamo tornati a giocare con le figurine, quelle altrui le chiamiamo figuracce; quelle belle, invece, fanno punteggio sul pallottoliere dei sondaggi. Ma oltre questo aspetto di facciata, questo ritorno all’infanzia e all’ingenuo affidarsi alle facce e alle faccette, c’è qualcosa di importante da capire. Come il voto non decreta l’esistenza di un popolo sovrano, perché poi tra il voto e le pressioni che lo precedono, le alleanze che lo seguono, le interpretazioni che si danno per non dire dei brogli e delle regole che vengono adottate a vantaggio di alcuni e contro altri, corre un oceano, altro che la sovranità popolare. Così le foto ti danno la parvenza del potere come una casa di vetro, una glasnost avrebbe detto Gorbaciov; ma più vedi la politica in foto e in video e meno la capisci, meno sai dove sta realmente andando, dove si nasconde l’Arcana imperii e chi e cosa di fatto decide. Il potere è impenetrabile anche se ci illude di farsi vistoso, alla portata di tutti, magari partecipando anche a un torneo internazionale di tennis o visitando Paesi tra ali di folla e saluti di due secondi con singoli cittadini. Alla fine ti accorgi che il potere è ancora quello spettacolo di magnificenza, munificenza e di potenza, come al tempo dei re. E il suo principale messaggio al popolo è la sua apparizione, la sua messa in scena.
Le monarchie, incluso il pontificato, erano regimi di alta visibilità, oggi diremmo regimi fotografici, video-immagini ad usum populi. Festa, fotina e forca. Ma i simboli, i riti, le liturgie non erano solo orpelli decorativi bensì veri e propri messaggi, esercizi di potestà e di consenso, espressioni vive di legami condivisi. Perfino Machiavelli teneva in alta considerazione l’apparire oltre l’essere: sembrare vale più di essere, in molti casi.
Il senso di frustrazione, invece, ti sopraggiunge se oltre le immagini ti chiedi: sì, va bene, ma cosa sta facendo al potere, come sta cambiando la vita pubblica con questo o quel regnante? Oltre la forma qual è il contenuto? E lì ti assale un sospetto di raggiro e messinscena quando ti accorgi che sotto la foto, dietro l’immagine, c’è poco e niente, non c’è un atto rilevante, un fatto significativo, una gran riforma, un’opera di cui parlare. Solo apparenza, facciata, fuffa, sorrisi e cartoni. Allora ti viene un’altra idea: che la politica non decida ma insceni, non si mette all’opera ma si mette in posa. Insomma, è tutta una questione di figurine.
