Un pittore contemporaneo, appena scomparso, che anelava all’assoluto, oltre la superficie delle cose. Con una ricerca che ha interpretato un’idea universale di natura.
Abbiamo parlato in più occasioni su Panorama della visione fantastica di Lorenzo Alessandri, riferendola a una criptica corrente surrealista italiana che ha avuto la sua più esplicita affermazione nel movimento Surfanta, di cui, tra 1964 e 1972, nel fiorire della sperimentazione delle neoavanguardie, hanno fatto parte, con Alessandri: Abacuc (Silvano Gilardi), Lamberto Camerini, Enrico Colombotto Rosso, Giovanni Macciotta, Mario Molinari e Raffaele Pontecorvo.
Il movimento era accompagnato da una combattiva rivista, nutrita delle mille curiosità esoteriche, occultistiche, religiose, buddhiste e cattoliche insieme di Alessandri. Ottimo pittore per invenzione e tecnica, Alessandri si era misurato con un altro straordinario artista, Silvano Gilardi, fratello del più noto Piero, inventore dei «tappeti-natura» in polieturano che riproducono in modo estremamente realistico frammenti di ambiente naturale.
«Anaciclico» ha una posizione analoga ma la esprime riproducendo la realtà magica della natura che nasconde verità segrete, non diversamente da come osserviamo e intendiamo la «Canestra di frutta» di Caravaggio, tanto reale quanto carico di significati profondi. Sempre fedele alla sua visione, Abacuc se n’è andato in questi giorni – era nato nel 1933 – in un mondo diverso nel quale certamente ha creduto.
Due questioni fondamentali pone la pittura di Silvano Gilardi: la prima è quella del realismo, la seconda è quella dei generi. L’apparenza infatti denuncia cose riconoscibili, montagne, cieli, alberi, o frutta e fiori diversi: mele, pere, agrumi, garofani e altre attività botaniche, ma la nostra mente non registra, con il procedimento della memoria attiva, immagini che conosce, e nemmeno forme consuete. Sappiamo bensì di vedere monti, neve o acque, ma sappiamo anche di essere in nessun luogo e in nessun tempo, che quei monti, quella neve e quelle acque non hanno consistenza reale, non rappresentano un dato di realtà.
Gilardi dipinge con minuziosa fedeltà un’idea universale di natura rappresentando non ciò che vede ma ciò che sente, il suo sogno delle cose, il suo mito, la numinosità del creato sotto specie di paesaggio o di natura morta. Diverso è dipingere una montagna, diverso è dipingere l’idea di montagna. In un certo senso Gilardi ripropone l’antica disputa medievale sugli universali. La soluzione prescelta da Gilardi non è quella realista ma nominalista, secondo la quale l’universale è un segno delle cose stesse e sta in luogo di esse. Quanto a dire, sul piano dell’estetica figurativa, che per Gilardi la pittura sta al posto della realtà, la sostituisce. Ecco perché il reale non ha nulla di realistico, è un’invenzione che parte da un pretesto, da una «convenzione» di natura. Con lo stesso spirito Gilardi affronta ora la natura morta, pensando più alla perfezione di Fede Galizia che alla corruzione del tempo di Caravaggio.
Niente di più lontano della sua idea di mela dalla mela reale. Come prima il suo soggetto principale era il paesaggio, ora lo è, essenzialmente, la natura morta. Si tratta, in questo caso, di un doppio nominalismo, o di un nominalismo «orientato» sui generi. Dopo aver sperimentato il genere paesaggio con le sue infinite possibilità d’invenzione, Gilardi affronta il genere natura morta con la stessa insistenza, ossessione, tenacia.
Ma erano davvero paesaggi, e sono davvero, ora, nature morte? La superficie che vediamo è porcellanosa, specchiante, traslucida. Benché l’esecuzione sia meticolosa, non è possibile nessun equivoco con la realtà esterna, nessun rimando alla fotografia, nessuna ambiguità da trompe l’oeil. A cosa punta Gilardi? Non certo a una visione simbolica, come potrebbe suggerire una facile lettura, bensì a una fuga dalle apparizioni del reale per cogliere un paradiso delle cose, una dimensione innaturale. Ecco allora che anche il genere natura morta non è più tale.
Resta da spiegare perché nella sua mitologia botanica, il pittore non definisca mai un ambiente chiuso, un interno, il luogo ideale e deputato della natura morta. È questa la seconda questione che egli affronta: quella che si è detta all’inizio, dei generi. Con uno spirito manieristico, con un gusto della deformazione che sfiora, senza mai toccarla, l’«anamorfosi», Gilardi immagina la natura morta nella natura, fonde le sue visioni di lontananze paradisiache, di azzurri infiniti con il repertorio di fiori e di frutta che abbiamo sempre trovato sui tavoli e nelle ceste in una luce di interni con forti chiaroscuri, secondo la lezione caravaggesca. Con grande naturalezza, come depositi nel giorno della creazione, stanno sulla riva di un fiume, contro ghiacciai, su morbidi tappeti erbosi, pere, mele, fichi, iris, peonie; convivono oltre le stagioni.
Così il genere «natura morta» viene messo in discussione, perde la sua connotazione di genere, per diventare visione globale, un’idea universale. E quanto più la compenetrazione e la fusione dell’ambiente naturale con la frutta e i fiori è esplicita, tanto più Gilardi raggiunge il suo obiettivo. Allora anche la qualità, l’invenzione, e l’intrigo del concetto, filosoficamente adombrato, toccano i risultati più alti. Il supremo artificio determina una seconda natura nella quale veniamo coinvolti attraverso un’impercettibile ipnosi: non sappiamo più se credere a ciò che sappiamo della natura o credere a ciò che adesso vediamo nella trasfigurata visione di Gilardi.
In questi momenti anche la luce si fa diversa, ultraterrena, ma non per questo onirica. Unisce, amalgama, compenetra la natura vivente e la natura morta, sfiora l’epidermide delle cose, cristallizza il fiume e rende fluida la pelle delle pesche, circola ovunque, si posa come un velo. A volte la luce sembra provenire non dall’esterno ma dall’interno, dal corpo del monte, come per un’accensione sulfurea, un’incandescenza vulcanica. Altrove si fa «serotonina», vellutata, determina quella che lo stesso Gilardi definisce «l’ombra benigna degli alberi». Come capite bene non si tratta degli alberi, ma della loro immagine trasfigurata, in metamorfosi con le rocce, con un effetto di muschio.
Ma anche la luce non ha, in Gilardi, nulla di naturalistico, è invece un’idea della luce, un’abbagliante, incandescente «lingotto» che sta come una spada nella roccia, come la lama dell’Arcangelo nel Paradiso terrestre. Anch’essa diventa un corpo, si fa solida, convive con le rocce, la terra, l’acqua, i frutti: è un corpo astrale, forse l’aspirazione al divino come, in forme più pianamente naturalistiche, lo erano i ghiacciai nei paesaggi. In questa nuova serie Gilardi ha voluto sfiorare il mistero della creazione e la presenza del divino nella natura, un pensiero costante della sua ricerca, quello stesso che muove tutta la sua programmatica fuga dal reale sotto l’apparenza di riprodurlo. Così la sua pittura può essere definita metafisica in senso religioso e forse meglio mistica, attraverso e contro i generi. Perché Gilardi crede fermamente che ogni cosa il pittore dipinga, dipinge Dio.
