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Ei fu. Gli altri un po’ meno

Ei fu. Gli altri un po’ meno

Il 5 maggio 1821 moriva Napoleone. E dopo di lui molti presidenti della «République» hanno avuto un approccio politico che si è ispirato al condottiero per antonomasia. Una «grandeur» dai risultati alterni, in verità.


«Ei fu» anche se nulla è più presente di quel passato remoto. Che Napoleone Bonaparte era morto il 5 maggio (1821), lo si seppe con una quindicina di giorni di ritardo, quando arrivarono in edicola le «Gazzette». Tradotto in valori di tempo, lo spazio che stava fra l’isoletta di Sant’Elena sperduta in mezzo al mare, e le città metropolitane, si misurava in settimane. Per il fatto di riguardare un personaggio di prima grandezza, la notizia ebbe rilevanza per un pubblico che l’accolse «percosso e attonito» ma non ci furono celebrazioni. Alessandro Manzoni, la sua lirica, non ebbe l’autorizzazione di stamparla. Agli amici, distribuì clandestinamente un manoscritto che venne, di volta in volta, ricopiato per essere mostrato ad altri amici. Ferdinando Bellisomi responsabile della censura per conto degli austriaci (che governavano il Lombardo-Veneto) ritenne che l’ode rivestisse caratteri eccessivamente elogiativi nei confronti di un uomo che, alla fine, era stato un grande nemico di Vienna. La batosta rimediata ad Austerlitz, nel 1805, rappresentava un ricordo ancora troppo recente. E Parigi si stava attorcigliando in questioni di più immediata rilevanza pratica tanto da non essere in grado di riservare qualche attimo di attenzione per un suo campione.

Per la verità, anche negli anni e nei decenni a seguire, a dispetto di vicende che, uscite dalla cronaca, avevano preso cittadinanza nella storia, le ricorrenze in qualche modo legate alla sua persona hanno finito per passare abbastanza inosservate. Tre quarti d’Europa aveva da rimproverargli esagerazioni e intemperanze, arbitrii e, addirittura, ladrocini. E, per i francesi, non occorre una data particolare per celebrarlo perché, dalle Alpi alla Manica, tutto è Napoleone, dal capostipite all’attuale Emmanuel Macron. Sta appeso nelle targhe di strade del villaggio più minuscolo, troneggia nelle piazze principali di ogni cittadina e, un sondaggio – fra gli studenti – rivela che è la personalità che riscuote la maggior considerazione: davanti (ma con immenso distacco) a Giovanna D’Arco e al «cavaliere senza macchia e senza paura» Pierre Terrail de Bayard.

I francesi gli s’identificano e, in qualche modo, ognuno di loro se ne sente parte. In un’altra ricerca – fra gli adulti – alla domanda sulla gratificazione di maggior valore, hanno risposto: la Legion d’Onore che, per l’appunto, è l’onorificenza creata (nel 1802) da Napoleone. Il condottiero spunta sulle sigarette Gauloise, nel teatro dell’Opéra, fra le ballerine di Edgar Degas, al Louvre e all’Orangerie. Abita – ancora – all’Eliseo dove i presidenti francesi – per un riflesso incondizionato – se ne sentono un po’ gli eredi, un po’ gli emuli e un po’ i continuatori. Non si fa fatica ad attribuire un carattere napoleonico a Charles De Gaulle. Intanto era un militare di carriera e poi si mise a capo di una «maggioranza silenziosa», schierata attorno all’Arc de Triomphe, come i reparti di un esercito, risoluto a combattere. Ma anche l’elegante Jacques Chirac o il più popolare George Pompidou hanno esibito alcuni tratti dell’autorità del Primo imperatore con la conseguenza – persino ovvia – di considerare il potere un diritto del quale è ammissibile l’abuso.

«Io faccio la guerra!». Se ne uscì proprio così il presidente George Eugène Clemenceau – con un «io» di misura sconfinata – quando il Primo conflitto mondiale era già avanti da qualche mese. Lo disse ad alta voce, scandendo le parole, fra 300 deputati azzimati che stavano alla sua destra e un paio di migliaia di reclute, con indosso una divisa approssimativa, destinate al fango delle tragiche trincee sulla Marna. I colleghi del parlamento applaudirono anche convintamente. I soldati, in attesa di essere trasferiti in prima linea, si limitarono a guardarli.

Agli sgoccioli dell’estate del 1900, fu «napoleonico» il ricevimento che un altro presidente della Repubblica – Émile Loubet – offrì a 22 mila sindaci, divisi in ranghi secondo la popolazione che amministravano, come i reparti di un’armata, disposta con ordine. Numeri da record nel Paese che rese celebri figure di affamati cronici come la Cosette dei Miserabili, piuttosto che il Rémi di Senza famiglia. Valéry Giscard d’Estaing, Napoleone, tentò di emularlo sul campo. Entrò all’Eliseo il 27 maggio 1974 (per restarci fino al 21 maggio 1981) e si trovò alle prese con le questioni che i francesi avevano lasciato in sospeso nei paesi africani, a suo tempo conquistati e dove continuavano a mantenere un’influenza decisiva. Nel settembre 1979 autorizzò l’operazione «Caban» che significò schierare il contingente del comandante Philippe Erulin per contrastare i ribelli del fronte nazionale nello Zaire che mettevano in pericolo il governo «amico» nella città di Kolwezi. E, il 20 settembre 1979, affidò i paracadutisti del «Barracudas» al colonnello Bernard Degenne nel tentativo (riuscito) di riportare David Dacko sul trono della Repubblica di Centrafrica.

Negli stessi mesi, a firma del presidente della Repubblica Giscard d’Estaing, le librerie ospitarono un testo sulla Démocratie Française che, in un centinaio di pagine, ordinate in una dozzina di capitoli, illustrò una serie di «diritti universali» dove – come una specie di breviario – si mettevano i fila i valori «non negoziabili» di lavoro, convivenza e autodeterminazione dei popoli. Alla domanda su come si potessero definire i francesi, Friederich Sieburg che – avendo studiato per una vita Robespierre e i mesi del Terrore – ripose con competenza che «loro (compresi i presidenti) dovevano ritenersi magnifici e insopportabili». Hanno tenuto il dito sul grilletto anche Nicolas Sarkozy, che risultò decisivo nella dichiarazione di guerra contro la Libia di Mu’ammar Gheddafi, e François Hollande che, per il fatto di essere dipinto come uno sciupafemmine, sembrerebbe il meno napoleonico dei presidenti francesi. Invece, anche lui (gennaio 2013) si è intestato un’incursione armata in Mali (operazione «Serval») per proteggere l’alleato Dioncounda Traoré, che si trovava alle prese con un’opposizione agguerrita. Lasciò bombardare la città di Sevare e giustificò i morti – militari e civili – come ovvia conseguenza dei conflitti. Alla fine di quello stesso anno (il 5 dicembre) inviò truppe a Bangui, in Centrafrica (operazione «Sangaris») a sostegno del presidente François Bozizé nonostante una documentazione sterminata che denunciava corruzioni di ogni tipo e di ogni dimensione.

Per François Mitterrand, il fantasma di Napoleone venne evocato esplicitamente quando presentò la sua candidatura per essere eletto presidente per la seconda volta. Chi tentò di contestarlo fece riferimento al regno dell’Imperatore per sottolineare che, se i francesi gli avessero rinnovato la fiducia, avrebbe governato più a lungo. Avrebbe dovuto essere un deterrente per l’elettorato che, al contrario, lo premiò. E avendo iniziato a governare il 21 maggio 1981, restò al potere fino al 17 maggio 1995. Senza farsi troppi scrupoli. Aveva una figlia «segreta» e un tumore alla prostata capace di limitare la sua attività all’Eliseo. Tutti sapevano ma ciascuno se ne stette zitto.

Il presidente soprannominato «il Fiorentino» per i machiavellismi politici, i giornalisti li apostrofò come «cani» al funerale del suo primo ministro Pierre Bérégovoy che si era suicidato nel suo ufficio e che i giornali avevano criticato per alcune scelte in economia. I francesi – sempre secondo Sieburg – detestano sbagliare ma più ancora che si faccia loro notare l’errore. Figurarsi Napoleone e i «napoleoni». Mitterrand mise in piedi una specie di sezione di spionaggio ultrasegreta con intercettazioni telefoniche capaci di catturare le conversazioni degli amici, dei quasi-amici, degli avversari e del giornalista Edwy Plenel di Le Monde. Un «Watergate» che non ebbe analogo riscontro mediatico come lo scandalo americano. Il processo approdò a Parigi nel novembre 2005 e si concluse con la condanna di una dozzina di persone che avevano fatto parte della «cellula». Mitterrand era morto l’8 gennaio 1996, poco meno di dieci anni prima. Frederich Sieburg ha sintetizzato: «Un popolo (presidenti compresi) meravigliosamente esasperante».

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