Il 23 settembre 1943, a Salò, va in scena l’ultimo atto del fascismo. Un Benito Mussolini fatto dimettere, umiliato dall’arresto – e quindi liberato da Adolf Hitler – fonda a Salò, sul lago di Garda, quella cellula «sociale italiana» con cui il regime annientato deve rilanciarsi. La storia decise diversamente.
Fu con una riluttanza prossima al malumore che accettò di indossare i panni del capo di un rinato fascismo della Repubblica sociale italiana. La sera del 18 settembre 1943, per annunciare il nuovo corso del regime, Benito Mussolini parlò da Monaco di Baviera, utilizzando le lunghezze d’onda della radio nazionale. Incitò le camicie nere a non mollare: occorreva mantenersi in armi e combattere con i fratelli tedeschi. La guerra non era finita ed esistevano i presupposti per confidare in un esito favorevole. La bomba «segreta» avrebbe colmato il gap che, al momento, avvantaggiava inglesi e americani. Non ci credeva nemmeno lui e quello che disse gli venne da ragioni che poco hanno da spartire con la razionalità. Le pur esigue note biografiche e le rare testimonianze di contemporanei lasciano intendere come Mussolini – altro che un duce di seconda generazione – avrebbe preferito qualche anno da pensionato «all’ombra del San Cassiano» a guardare dall’alto chi andava e veniva per il «callarone» che metteva in collegamento la strada provinciale con l’abitato della sua Predappio.
I suoi desideri personali risultarono frenati da una sorta di riconoscenza per lo zelo soccorritore che Adolf Hitler aveva messo in campo per aiutarlo. E dall’abbandonare il ruolo di primo della classe in uniforme fu trattenuto dall’incalzare dei fedelissimi che, senza di lui, si sentivano perduti. Perciò si lasciò trascinare da quell’inerte indolenza che, ormai, aveva la meglio – e di gran lunga – sulla sua volontà fiaccata e sulle ambizioni appassite dell’idolo infranto. «Camicie nere, italiani e italiane» esordì «ho tardato qualche giorno prima di indirizzarmi a voi perché, dopo un periodo d’isolamento morale, era necessario che riprendessi contatto col mondo». Per la maggior parte dei radioascoltatori, il silenzio di quelle settimane risultava abbastanza inspiegabile. E, per la verità, i più avevano conoscenze sommarie anche riguardo il che cosa era accaduto in quel tempo. Senza concedere troppo ai dettagli, Mussolini cercò di dare conto che il 25 luglio era stato sfiduciato dal Gran Consiglio; che il re Vittorio Emanuele III el’aveva fatto arrestare nel cortile di villa Savoia; che era finito – praticamente prigioniero – sul Gran Sasso e che i tedeschi l’avevano liberato per restituirgli il bastone del comando.
«È già accaduto che un ministro sia dimissionato o un comandante silurato» rivendicò «ma è un fatto unico nella storia che un uomo il quale, come colui che vi parla, aveva per 21 anni servito il re con assoluta fedeltà sia messo agli arresti sulla soglia della casa privata del re, costretto a salire sull’autoambulanza della Croce Rossa col pretesto di sottrarlo a un complotto, condotto a velocità pazza in una e poi in un’altra caserma dei carabinieri». Si presentò come una vittima costretta a subire – immeritatamente – umiliazioni indebite. Però non era il Mussolini scintillante che, solo modulando il tono della voce, era in grado d’incantare il pubblico. La voce, a tratti appannata, denunciava i segni di una stanchezza non occasionale. Se i radioascoltatori, avessero potuto anche vederlo, ne avrebbero notato i lineamenti smagriti, le guance scavate, un gesticolare più lento e persino più impacciato. Di quel duce che aveva conquistato le piazze, infiammandone la fantasia, restavano gli occhi che spalancava come per distinguere meglio chi gli stava intorno
Mussolini, da Monaco, si scagliò contro i Savoia «che avevano preparato e organizzato nei dettagli il colpo di Stato, complice ed esecutore Badoglio, con l’accondiscendenza di alcuni generali imbelli e imboscati e taluni invigliacchiti elementi del fascismo». Il capo del fascismo (diventato ex) era stato trasferito a Campo Imperatore, sul pianoro più alto del Gran Sasso d’Italia. Sembrava il luogo più appropriato dove tenerlo prigioniero. Gli uomini del nuovo corso temevano possibili ritorsioni fasciste che non ci furono. I capi delle camicie nere che avevano giurato di morire per il duce, rapidamente si rassegnarono a vivere senza.
A liberare Mussolini ci pensò Hitler pretendendo che, con assoluta precedenza, ci si occupasse «del suo amico italiano». Si trattò di un autentico blitz che battezzarono Operazione Quercia. Ci lavorarono gli uomini della Luftwaffe. Il generale Kurt Student si assunse la responsabilità dell’impresa. Il comando sul campo toccò all’ufficiale delle SS Otto Skorzeny. Per questo Mussolini, alla radio di Monaco, rese omaggio all’amicizia tedesca, tagliò i residui ponti con la monarchia e indicò che il futuro governo avrebbe avuto un’impronta repubblicana. Tuttavia, un conto era delineare – per sommi capi – la struttura del nuovo fascismo e un altro dargli sostanza attribuendo compiti, incarichi, incombenze e progettualità. A Mussolini, alla moglie Rachele e ai due figli minori, venne messo a disposizione il castello Hirschberg, nella foresta bavarese. Dall’ambasciata di Budapest, venne chiamato Filippo Anfuso che aveva titolo di ministro al quale vennero affidate le incombenze della segreteria particolare. Anche se si trovò poi nelle condizioni di assumere anche l’incarico di telefonista, usciere e, almeno in due circostanze, guardarobiere.
Stavano persino peggio tutti gli altri gerarchi (diventati «ex» in un amen) che, nelle situazioni più disparate e, qualche volta, rocambolesche, avevano potuto attraversare la frontiera per mettersi sotto la protezione nazista. C’erano il ras di Cremona Roberto Farinacci; Alessandro Pavolini che era stato ministro della Cultura popolare; il capo delle organizzazioni giovanili Renato Ricci. E c’era Galeazzo Ciano che, come si fosse trattato di un corpo estraneo, si sentiva in imbarazzo perché il suo – la notte del il 25 luglio – era stato uno dei voti che avevano messo Mussolini in minoranza, costringendolo alle dimissioni. In realtà, nessuna delle camicie nere godeva dell’apprezzamento tedesco al punto che vennero ospitati – si fa per dire – in una stanza disadorna dove l’unico confort consisteva nel dormire per terra con una sola coperta ciascuno per ripararsi dal freddo della notte.
Eppure, come dimentichi (o ignari) di un mondo che si era capovolto, trascorsero tre giorni ad accapigliarsi, contendendosi incarichi che avrebbero dovuto rappresentare un grado superiore nella gerarchia del nuovo fascismo. Quel vecchio gruppo dirigente che s’industriava per succedere a se stesso restava un miscuglio di velleità e d’inefficienza, di grandi dabbenaggini e di minuscole scaltrezze, di diffusa codardia e di qualche sprazzo di eroismo. Quanto al governo; il primo nodo da sciogliere riguardò il ministero della Guerra. La persona più affidabile (e gradita ai tedeschi) sarebbe stato il generale Ugo Cavallero che però non c’era più. Nella sua casa di Roma, era stato trovato con la pistola in mano e un proiettile nella testa. Gli inquirenti si sbrigarono a rubricare quella morte come suicidio. E non vollero badare al fatto che l’ufficiale era mancino ma impugnava l’arma con la destra. Alla fine – più per necessità che per convinzione – fu scelto Rodolfo Graziani. Anche se, negli ultimi tempi di regime fascista ancora al potere, era stato emarginato e Mussolini attribuisse a lui una quantità di errori. Per gli altri dicasteri, vennero scelti Guido Buffarini Guidi per gli Interni, Fernando Mezzasoma per la Cultura Popolare, Domenico Pellegrini Giampietro alle Finanze, Carlo Alberto Biggini all’Educazione nazionale, Nicola Bombacci al Lavoro. Sottosegretario alla presidenza: il pluridecorato Francesco Maria Barracu.
Di questi, nessuno contava niente: circostanza che dovette risultare evidente fin dall’inizio. Forse per questo, Mussolini che, a quel ruolo, si sentiva forzato, esercitò l’incarico con noncuranza crescente. Da padre-padrone del primo fascismo era diventato il prestanome del fascismo numero due. In un’occasione, almeno, si lamentò perché sentiva di svolgere il ruolo del «burattino» il livello di libertà del quale dipendeva dal capriccio di Hitler. In ogni caso, il 23 settembre 1943, la Repubblica sociale nasceva ufficialmente. Il duce diceva – certo -, esortava, scriveva, emanava disposizioni ma non si curava nemmeno che venissero applicate con puntualità. Del resto era inutile controllare: ognuno faceva come voleva e – più spesso – come poteva.
Mussolini trascorreva ore a guardare le onde del lago di Garda a Salò – sede del governo – che s’increspavano sotto i suoi occhi. Leggeva qualche pagina di Friedrich Nietzsche. Firmava le carte che gli portavano senza nemmeno leggerle. E sempre alle prese con i disturbi di un’ulcera molesta che andava peggiorando e lo tormentava pungendogli lo stomaco. Non aveva amici e non ne cercava, seppure attorno a lui si agitavano ancora le passioni e gli interessi di chi speculava, mendicava o, peggio, tramava. Era finito e lo sapeva. Non c’era più spazio nemmeno per il fascismo e, anche di questo, si rendeva conto.
