Home » Agli italiani piace la musica «sovranista»

Agli italiani piace la musica «sovranista»

Agli italiani piace la musica «sovranista»

In tre decenni, la situazione si è ribaltata: la generazione Z ascolta soprattutto canzoni tricolore cantate in italiano. Tutto merito dell’hip-hop.


Altro che esterofilia. Nel nostro Paese è la musica italiana a farla da padrona in tutte le classifiche che contano: da quelle di vendita dei singoli e degli album a quelle delle piattaforme streaming e dei brani più trasmessi in radio. Una lenta ma inesorabile rivincita della canzone nostrana, iniziata da lontano, 30 anni fa, nel 1991, quando nella Top ten dei dischi più venduti dell’anno c’erano sei album internazionali e quattro italiani. Nomi d’arte a parte – spesso in inglese – in tre decenni la situazione si è completamente ribaltata. Lo confermano i dati ufficiali della Federazione Industria musicale italiana: l’album più acquistato nel 2020 è stato Perdono di Marracash, seguito da Famoso di Sfera Ebbasta e da 23 6451 di Tha Supreme (all’anagrafe Davide Mattei, classe 2001).

Più in generale, la partita della Top 20 degli album più venduti l’anno scorso si è conclusa con un clamoroso 17 a tre. Gli unici artisti internazionali presenti sono infatti Harry Styles al tredicesimo posto, Bruce Springsteen al diciannovesimo e The Weekend al ventesimo.

Il resto è un dominio tricolore destinato a durare: i rilevamenti della settimana compresa tra il 29 gennaio e il 4 febbraio 2021 dicono che nella Top ten degli album ci sono nove dischi italiani. Assolutamente coerente con questa tendenza è la chart dei singoli brani più venduti nel 2020: davanti a tutti, Alessandra Amoroso con i Boomdabash (Karaoke), poi Rocco Hunt & Ana Mena, Irama, Ernia e Ghali. Solo venticinquesimo il vincitore di Sanremo Diodato con Fai rumore.

Sono diverse le chiavi di lettura di questi numeri incontrovertibili. Il primo e fondamentale fattore per comprendere il boom della musica italiana nelle classifiche made in Italy è l’affermarsi del rap come genere di riferimento per under 25.

Una musica fatta di flussi di parole e rime, di testi lunghissimi, infarciti di slang, che per l’adolescente italiano medio sarebbero impossibili da comprendere in inglese. Dalla lingua ai contenuti: ovvio, per esempio, che per un 17enne milanese risultino più attraenti i testi di un rapper «local» che parla della movida lungo i Navigli, piuttosto che quelli di un collega americano dedito a raccontare la vita di strada in un ghetto di Atlanta.

«Un contributo decisivo al boom della musica italiana lo ha dato il rap che, paradossalmente, è un genere nato nelle aree urbane degli Stati Uniti e che non ha alcun punto di contatto con la nostra tradizione sonora e autorale» spiega Enzo Mazza, presidente della Fimi. «Una volta italianizzato, l’hip hop ha sbancato le classifiche e letteralmente cambiato volto alla nostra scena musicale imponendo di fatto una nuova e molto più giovane generazione di artisti. E anche di fan: la generazione Z è quella che ha cambiato per sempre le regole del consumo di musica in Italia» conclude.

Dalle classifiche di vendita allo streaming il quadro non cambia: nelle piattaforme della musica liquida e immateriale, frequentate per lo più da ragazzi tra 16 e 24 anni, che per il 94 per cento ascolta musica attraverso lo smartphone, vanno sempre più forte gli artisti italiani, soprattutto quelli della scena rap/trap e hip hop.

Nel 2020 l’artista più cliccato su Spotify è stato Tha Supreme, seguito da Sfera Ebbasta, Marracash, Gué Pequeno e dal rapper napoletano Geolier. È di Irama invece la canzone più ascoltata (Mediterranea) su Spotify, mentre Elodie è di gran lunga l’artista donna più ascoltata in Italia.

Persino nel mercato dei vinili, tradizionalmente appannaggio degli over 40 innamorati del classic rock internazionale, ci sono evidenze del momento magico della musica tricolore: nel 2020 il secondo 33 giri più venduto, dietro a The Dark Side of The Moon dei Pink Floyd, è stato Famoso di Sfera Ebbasta.

E in radio? Anche qui la musica è cambiata. L’anno scorso, 53 dei 100 brani più mandati in onda erano rigorosamente made in Italy. Un numero che rende obsoleta un’antica proposta rilanciata a più riprese dalla politica e da alcune associazioni di categoria, ovvero di imporre per legge una quota fissa di brani italiani nella programmazione radiofonica. «Mi pare che quella proposta sia superata ormai dalla realtà» dice Mazza. Che aggiunge: «La radio ha ancora un ruolo centrale nel mercato della musica, ma lo streaming ha cambiato tutto. Una volta erano i deejay delle emittenti a lanciare e imporre i brani, adesso ci sono canzoni nelle playlist delle piattaforme streaming o rese virali da TikTok che diventano hit mondiali senza che siano mai state trasmesse da una radio».

© Riproduzione Riservata