Home » Eppure monta la rivolta contro i multicolore

Eppure monta la rivolta contro i multicolore

Eppure monta la rivolta contro i multicolore

Tra conformismo, convinzione e furbizia, molte compagnie negli Stati Uniti appoggiano le tematiche arcobaleno a suon di dollari e messaggi netti. Ma hanno passato il segno: quelli che si ribellano sono sempre di più.


Gli amanti della Bud Light hanno cominciato a postare a ripetizione sui social i loro video, pochi secondi, dove si vedono con in mano una confezione nuova di zecca della birra più venduta in America, appena tirata fuori dal frigo e buttata nella spazzatura. Una delle proteste scatenate dalla decisione dell’azienda di coinvolgere nella campagna pubblicitaria la transgender Dylan Mulvaney con quasi due milioni di follower su TikTok.

Una lattina del famoso marchio di birra è stata personalizzata con la sua faccia sollevando aspre critiche dei repubblicani, ma anche tra star della musica. Il risultato è che le vendite dell’iconica birra a stelle e strisce sono state superate da un prodotto messicano. Le perdite, grazie all’arruolamento della discussa influencer transgender, ammontano a 16 miliardi di dollari. In poche settimane la Bud Light ha visto evaporare un quarto della quota di mercato crollando del 20 per cento in borsa.

Non è un episodio isolato, ma la punta dell’iceberg di una ribellione che sta montando negli Stati Uniti contro «l’abbraccio» sempre più stretto delle grandi compagnie al mondo Lgbtqiap+, l’ultima versione della sigla che raggruppa lesbiche, gay, transessuali e fluidi vari.

Target, la più grande catena americana di super magazzini, ha perso 10 miliardi di dollari per una linea di prodotti ispirata al Pride, l’orgoglio gay, compresi articoli per bambini. The North Face, marchio per le escursioni, è sotto tiro dopo la collaborazione con la drag queen ambientalista Pattie Gonia.

Anche Disney è finito nell’agone, addirittura politico, scontrandosi frontalmente con il governatore della Florida Ron DeSantis, candidato alla Casa Bianca nel 2024, per la sua legge che vieta le teorie gender nelle scuole elementari e medie.

«Le proteste, purtroppo, non saranno sufficienti. È il passaggio al mondo del mercato di quello che sta accadendo da 20 anni negli Stati Uniti sul piano intellettuale con l’imposizione dell’ultra politicamente corretto, che sia ideologia Lgbt o altro. Una nuova ortodossia che sta uccidendo la libertà di pensiero» spiega un italiano con un incarico governativo oltreoceano. E per questo non può rivelare il suo nome.

Sui social gran parte dei commenti critici sul mese dell’orgoglio gay attaccano le aziende con l’accusa di voler adescare i bambini. Fra maggio e giugno del 2022 circolavano negli Usa meno di 400 post per il boicottaggio dei Pride, ma quest’anno sono balzati a 15 mila.

Nonostante l’effetto boomerang le grandi società non demordono: oltre a testimonial o linee di prodotti Lgbt continuano a finanziare con slancio i Pride e le associazioni che sventolano la bandiera della diversità sessuale. Target è sponsor delle manifestazioni arcobaleno di New York con 175 mila dollari. Anheuser-Busch, che produce la Bud Light, versa donazioni ai Pride di Chicago, San Francisco, Charlotte e altre città.

Puma devolve il 20 per cento della sua collezione arcobaleno, con una donazione massima di mezzo milione di dollari, alla Cara Delevingne Foundation, che raccoglie fondi a supporto della galassia Lgbtqiap+ in tutto il mondo. Il motivo è semplice: le comunità gay e fluide hanno un potere d’acquisto globale di 3,9 triliardi dollari (1,1 triliardi solo negli Usa e 103 miliardi in Italia).

La rivolta ha interessato dozzine di marchi: Adidas è finita sotto attacco per una campagna pubblicitaria di «costumi da bagno trans inclusivi». L’ex olimpionica del nuoto inglese, Sharron Davies, sempre critica delle transgender che partecipano a sport femminili, ha lanciato su twitter «#AdidasHatesWomen» (Adidas odia le donne). I grandi magazzini di Kohl hanno ideato una linea di abbigliamento arcobaleno per il Pride che riguarda anche i bambini sollevando l’ira dei conservatori. In prima fila, Laura Ingraham, ospite fissa di Fox news che ha accusato la compagnia di «non rispettare il buon senso e gli ideali americani». Kohl è crollata in borsa e alcuni negozi hanno subito minacce di attentati.

«Il vestito non è scelto a caso, ma serve per plasmare e arruolare le future generazioni» dice la fonte di Panorama negli Usa. «Gli attivisti Lgbt influenzano le grandi aziende con ricatti belli e buoni». Esistono classifiche con tanto di punteggi delle compagnie amiche del mondo Lgbt, che attraggono fondi da colossi degli investimenti come BlackRock, con ai primi posti Walmart, Amazon, Exxon e Apple.

La linea creata per Target dal designer transgender, Erik Carnell, 29 anni, che vive a a Londra, ha sollevato la reazione più furiosa: 2 mila prodotti per il Pride che includono tazze per «il genere fluido» o calendari «queer tutto l’anno». Nel mirino delle proteste sono finiti soprattutto i libri per bambini dai 2 agli 8 anni «Ciao, ciao (sesso) binario», «Pride 1,2,3», «Non sono una ragazza».

Target ha dovuto rimuovere dai negozi gli articoli più criticati o relegarli sul retro provocando la reazione opposta degli attivisti Lgbt. In diversi casi i clienti avevano tirato giù i cartelloni pubblicitari della linea transgender e minacciato i dipendenti pubblicando poi video rabbiosi sui social.

Matt Walsh, noto commentatore politico di destra, ha lanciato la campagna per boicottare Target che «prova ad arruolare i bambini nel campo Lgbt». Walsh sostiene che «milioni e milioni di americani in questo Paese sono disgustati. Non vogliono che gli venga vomitata addosso roba arcobaleno quando entrano in un negozio. Soprattutto se ci vanno con i loro figli».

Altro esempio «di capitalismo arcobaleno» che ha provocato aspre critiche è la scelta di Jack Daniels di pubblicizzare le famose bottiglie di whisky con artisti di un gruppo di drag queens (uomini che ostentano travestimenti da donne).

Anche il Lego arcobaleno è finito nel mirino, ma uno degli scontri più duri coinvolge dallo scorso anno la Disney. DeSantis, governatore repubblicano della Florida, ha portato avanti con forza la legge soprannominata «non dire gay», che proibisce le teorie gender nelle scuole fino al liceo.

I fan e i dipendenti Lgbt di Disney hanno protestato per il silenzio iniziale della «grande fabbrica dei sogni» sul tema proprio in Florida, roccaforte dei suoi parchi di divertimento. Alla fine l’amministratore delegato, Bob Chapek, ha scritto una lettera di scuse ai dipendenti: «Avevate bisogno di me come alleato più forte nella lotta per la parità di diritti e io vi ho deluso. Mi dispiace». Per di più ha sospeso le donazioni ai politici in Florida e aumentato quelle ai gruppi di attivisti che in altri stati americani si oppongono a leggi in stile DeSantis. Il candidato repubblicano alla Casa Bianca ha reagito revocando lo «status speciale» di Disney in Florida.

Pure i grandi istituti finanziari come Deutsche Bank e le carte di credito sposano il mondo arcobaleno con la Visa che ne riprende i colori. Jacopo Coghe, portavoce di Pro vita e & Famiglia Onlus, segue da vicino il caso americano: «Tanta gente non si beve la propaganda Lgbt, ma le aziende se ne fregano. Vuol dire che sono mosse dall’ideologia. E da un investimento a lungo termine. Puntano alle giovani generazioni più malleabili. Anche se oggi perdono soldi seminano per guadagnare domani».

© Riproduzione Riservata