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Calvi, un mistero nei misteri

Calvi, un mistero nei misteri

Il corpo senza vita del «banchiere di Dio» venne ritrovato appeso a un ponte di Londra il 18 giugno 1982. La morte di un uomo dai tanti segreti e legami pericolosi con personaggi oscuri del Novecento aprì l’ennesimo enigma italiano. Dal forte odore di mafia.


Lo scoprirono quando era mattino da un pezzo. A un’impalcatura sotto il ponte Blackfriars di Londra penzolava un uomo legato per il collo da una corda di fibra sintetica arancione. Era il 18 giugno 1982: quarant’anni fa. Il morto si chiamava Roberto Calvi. Lo consideravano un finanziere «d’assalto», capace di scalare il Banco Ambrosiano fino a diventarne il presidente e d’intrecciare legami a doppio filo con il Vaticano tanto da meritarsi il titolo di «banchiere di Dio». Ma, troppa disinvoltura negli investimenti, qualche mese prima era stato condannato a quattro anni di reclusione perché riconosciuto colpevole di una quantità di reati valutari. Indossava un abito che venne definito «di buona sartoria». Nelle tasche aveva due mattoni, 7 mila sterline e un passaporto che gli storpiava il nome in un quasi omonimo Gian Roberto Calvini. Ci volle qualche ora per riconoscerlo perché si era rasato i baffi che gli punteggiavano il labbro, giusto per dargli un briciolo di colore.

La prima – ovvia – ipotesi che si trattasse di un suicidio è il mistero numero uno in una vicenda ingarbugliata dove i contorni si confondono fino a renderne incerti i profili. In Inghilterra, l’iniziale sentenza di suicidio venne annullata. Il giudice che l’aveva pronunciata si trovò incriminato per irregolarità sostanziali. Il verdetto venne riscritto con una formula definita «aperta», a significare che non era escluso l’omicidio. Chi poteva credere che un uomo già abbastanza appesantito dai suoi 60 anni (tutto sommato mal portati) potesse calarsi dal parapetto di un ponte per appendersi a una traversina? Operazione che giusto un acrobata da circo avrebbe potuto attuare con discreta facilità. Tuttavia, anche in Italia andò in scena il tira-molla. Dapprima, il tribunale di Milano archiviò il procedimento come risultato di un suicidio. Ma dopo, Roma qualificò l’episodio come omicidio. E precisarono che si trattava di un delitto ordinato dalla mafia.

Un pentito, Francesco Marino Mannoia, riferì che il Banco Ambrosiano (quindi Calvi che lo rappresentava) aveva investito in perdita il denaro che gli era stato affidato da Pippo Calò, custode degli interessi del clan dei Corleonesi. Lo sgarbo andava punito e Francesco Di Carlo avrebbe avuto il compito di chiudere la vicenda strangolando il responsabile. Questo nei verbali datati 1991. Il fatto è che, una volta finito in manette, si pentì pure Francesco Di Carlo, il quale (1996) ammise di essere responsabile di una quantità di delitti buoni per riempire un’enciclopedia ma negò di aver ammazzato Calvi. Convenne che, quell’incarico, glielo avevano affidato ma in un secondo momento lo esentarono «perché la questione stava in capo ai napoletani».

Il processo si dipanò per un paio d’anni fin quando (6 giugno 2007) la Corte d’Assise si pronunciò per l’assoluzione di tutti gli imputati. La decisione – se possibile – certifica che la morte di Calvi resta un mistero. E ancor più misteriosi sono gli elementi che dovrebbero dare conto dei «perché». Probabilmente, ogni dettaglio di questo delitto rappresentava un messaggio comprensibile solo a chi doveva capire. Ma, sfuggendo la dimensione dell’insieme, è difficile per i magistrati (prima) e gli storici (poi) attribuire un significato definitivo ai tanti tasselli di un puzzle apparentemente indecifrabile.

Certo, l’origine della vicenda sta nella spregiudicatezza nel maneggiare denaro, spostando valori imponenti da un conto all’altro e utilizzando questo per garantire quello e viceversa. «Bolle» speculative che funzionano fin quando i «buchi» economici stanno in bilanci capaci di inghiottirli e nasconderli. Il crack avviene quando i titolari di crediti chiedono soddisfazione e verificano che alle cifre dei rendiconti corrispondano carte e non quattrini.

Roberto Calvi dimostrò dimestichezza nel maneggio di numeri e conti benché fosse solo un ragioniere. Si era iscritto all’Università ma la guerra lo costrinse a interrompere gli studi. Fu mandato in Russia come militare e, al rientro, non c’era più tempo per la laurea. Senza pezzi di carta da esibire, ma con titoli da spendere. Dalla Banca Commerciale, dove inizialmente fu assunto, passò all’Ambrosiano per occuparsi del settore esteri. La sua arrampicata verso i vertici dell’istituto fu rapida: assistente del presidente, direttore generale, vice presidente e, alla fine, la poltrona del numero uno. Calvi, milanese d’origine, era di una timidezza che lo portava a essere scostante fino all’arroganza. Riuscì a rendere indipendente il Banco e, anzi, a rafforzarlo con l’acquisizione della Banca Cattolica del Veneto e del Credito Varesino.

Per queste operazioni era necessaria la pazienza del tessitore e – contemporaneamente – la sfacciataggine del giocatore d’azzardo. Impossibile, però, muoversi in solitaria. Si trovò in una specie di cordata con dei «soci» ognuno dei quali era in grado di proporre il doppio e il triplo gioco. Uno si chiamava Licio Gelli e passò alle cronache come il Gran Maestro della massoneria a capo della loggia P2, con la quale tenne in scacco anche il Maestro Venerabile che, allora, era Lino Salvini. Gelli la sua abilità nei maneggi l’aveva già praticata ai tempi del Ventennio. Vestì la divisa dei legionari di Mussolini in Spagna, quella dei paracadutisti durante il conflitto mondiale, infine un’uniforme fuori ordinanza per stare con i tedeschi, dopo l’8 settembre. Però, da quella posizione, fu in grado di «vendere» informazioni ai partigiani al punto che fu insignito di encomi e benemerenze dai protagonisti della Resistenza.

Certo, più che bombe e pistole, furono i quattrini ad attirare maggiore attenzione. Gli stessi che animavano Michele Sindona, che partendo da uno studio commerciale per consulenze finanziarie si trovò titolare del pacchetto di maggioranza della Franklin National Bank. Era siciliano d’origine ma cittadino del mondo, affettava cordialità, mostrava atteggiamenti signorili, appariva generoso e persino altruista. Era in combutta con i clan di Palermo e, soprattutto, con il ramo mafioso trapiantato a New York.

Altro personaggio legato a Calvi era il cardinale Paul Marcinkus, di origine lituana, un gigante in tonaca che dedicava il minimo del suo tempo alle preghiere indispensabili per il suo ruolo ecclesiale e tutto il resto all’attività di banchiere che gestiva con la spregiudicatezza dell’affarista. Era il responsabile dello Ior, acronimo di Istituto per le opere religiose ma che, nel mondo finanziario, era indicato come «banca del Vaticano».

Ognuno aveva i suoi interessi e ciascuno cercava di farli prevalere sugli altri. Difficile perseguirli senza che gli altri se ne accorgessero. Era necessario individuare strade contorte che confondessero i compagni di strada. Ne venne fuori un guazzabuglio di movimenti che, come nelle scatole cinesi, confusero gli stessi che le avevano organizzate. Attività finanziare presero la strada della Polonia per aiutare il sindacato Solidarnosc che si stava affrancando dal potere dell’Unione Sovietica. Un fiume di denaro fu indirizzato in America Latina a favore di chi contestava i vari dittatori. Ma un rivolo abbastanza importante si fermò in Uruguay, dove non c’era nulla da finanziare se non gli amici degli amici. Venne pianificato anche un intervento per controllare il Corriere della Sera: 200 miliardi un robusto pacchetto azionario (che – dissero – poteva valerne 60).

Impossibile che una costruzione così massicciamente ingarbugliata non finisse per scricchiolare. Gelli venne travolto dallo scandalo originato dalla scoperta della P2. Sindona dovette dichiarare bancarotta, fu processato e condannato. Ma la sentenza più definitiva la pronunciò Cosa Nostra. Nel carcere di Voghera, Sindona bevve un caffè con cianuro di potassio. Qualcuno sostiene che fu un suicidio per evitare che la mafia gliela facesse pagare con metodi anche più dolorosi.

Calvi si trovò nelle condizioni del vaso di coccio tra vasi di ferro. Si divincolò. Cercò aiuti da tutti quelli che aveva beneficiato. Fece valere le sue ragioni in Vaticano. Pensò anche di ricattare coloro che gli stavano voltando le spalle. Inutile. La giustizia, lentamente ma inesorabilmente, lo portò alla sbarra. E quelli che non perdonano gli sgarri gli infilarono la testa in un cappio.

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