La fine del sogno californiano può somigliare molto alla fine del sogno italiano. I progressisti sembrano i democratici di Los Angeles e San Francisco.
A San Francisco, paradiso di tolleranza e modernità, immagine scintillante dell’American dream, una homeless ha partorito sul marciapiede. La notizia è stata liquidata in poche righe dalla maggior parte dei giornali, trattata dunque alla stregua di una ordinaria vicenda di degrado metropolitano. In realtà, la faccenda è un po’ più complessa e in fondo ci riguarda da vicino. Infatti, quella che per qualcuno è la terra promessa, la città dove si mischia ogni genere di cultura e di razza, insieme alla libertà più sfrenata dei costumi e a immense praterie dell’innovazione e dell’impresa, ha un problema: un numero di senzatetto che non ha eguali in nessun’altra città americana. Chiunque sia stato in vacanza a San Francisco lo sa e la spiegazione è semplice: affittare una stanza in una casa condivisa costa in media 2.700 dollari al mese, mentre per un monolocale si pagano anche più di 4 mila dollari. In pratica, per avere un tetto bisogna guadagnare molto e spesso non bastano 120 mila dollari l’anno. In altre parole, una famiglia che noi considereremmo se non ricca almeno benestante, nella città californiana rischia di vivere in strada. Le cifre le ho desunte da un libro scritto da Francesco Costa, giornalista del Post. Il volume, che si chiama semplicemente California, fine di un sogno, l’ho acquistato alla stazione, prima di prendere il treno per Roma. Duecento pagine che ho divorato, tanto sono piene di dati e di riflessioni non banali.
Il problema non è San Francisco, con il suo Golden Gate che si staglia sulla baia e i luoghi della Beat generation che l’hanno resa celebre. Il problema è la California, che pur essendo lo Stato più ricco degli Usa, dove vive il 12 per cento della popolazione americana, ha un quarto degli homeless del Paese, ovvero 160 mila persone, una cifra stimata al ribasso. «Il numero di persone che dormono in strada a San Francisco è il triplo di quello di New York» scrive Costa, «una città che è cinque volte più grande e ha dieci volte il numero di abitanti di San Francisco». Vivere nella capitale del California’s dream costa e famiglie con due redditi, composte da genitori e tre figlie, si adattano in una sola stanza. Altri pur avendo un lavoro, dormono in macchina. Altri ancora scelgono di fare due ore di viaggio all’andata e due al ritorno, per sfuggire a canoni d’affitto proibitivi. Oppure c’è chi vive in tenda o sul marciapiede, come l’homeless che ha partorito in strada, tra i rifiuti.
Vi chiedete che cosa c’entri tutto ciò con noi. La spiegazione è semplice: nonostante in California siano cresciute aziende come Apple, Oracle, Atari, cioè sebbene quello sia il distretto della tecnologia digitale che si candida a cambiare il pianeta, il rovescio della medaglia sono gli studenti che non potendo pagarsi un alloggio vivono nel campus, ma all’aperto, dentro un sacco a pelo e si lavano nei bagni dei parcheggi pubblici. Tutto ciò mentre l’economia della California va a gonfie vele e il reddito medio supera quello degli americani che vivono in altri Stati, una spesa pubblica vastissima e i surplus di bilancio. Ma allora perché mentre altrove i senza tetto diminuivano, in California aumentavano del 31 per cento?
La risposta ci riguarda, perché secondo Costa la causa è in gran parte dovuta alle politiche green, alle misure ambientaliste che hanno impedito la costruzione di nuove case, perché i residenti, quasi sempre ricchi e molto liberal, si sono opposti alla cementificazione della città. «Not in my back yard». Non nel mio cortile. Così, i democratici abitanti di San Francisco, Los Angeles, San Jose e San Diego hanno respinto i progetti di nuove case, creando «una mastodontica crisi umanitaria delle persone senzatetto». Mentre difendevano i diritti delle minoranze, contro il braccio violento della legge e della sua polizia, a favore dell’integrazione nelle scuole e contro qualsiasi discriminazione e disuguaglianza, i liberal che hanno governato la California e le sue città si sono semplicemente dimenticati che le minoranze hanno bisogno di una casa, magari piccola ma a prezzi abbordabili; devono andare a scuola, dove ti insegnano che il merito è un valore e un’opportunità per crescere; occorre che rispettino la legge, perché la tolleranza non fa diminuire la criminalità ma l’aumenta. E le diseguaglianze non si aboliscono per decreto.
Ecco, se ho citato tutto ciò è perché la fine del sogno californiano può somigliare molto alla fine del sogno italiano. I progressisti sembrano i democratici di Los Angeles e San Francisco. Del resto, Elly Schlein è americana, parla molto di diritti, di integrazione, di difesa del pianeta, di salario minimo e di tante altre cose che per anni sono state la bandiera dei liberal a stelle e strisce. Scrive Costa: «La California sta facendo i conti con una versione particolarmente estrema e brutale di fenomeni che attraversano molti altri luoghi del mondo, Italia compresa».
Vi dice niente tutto ciò? A me fa pensare al futuro della città italiana più dinamica e moderna, ovvero Milano. Il capoluogo lombardo ha un sindaco ambientalista, che difende le minoranze, che è per l’integrazione e l’immigrazione. Ma poi ci si accorge che la «gentrificazione» della città costringe le persone ad andarsene, perché non hanno uno stipendio sufficiente a comprarsi casa o a pagare affitti che per un monolocale equivalgono a uno stipendio medio. La criminalità aumenta e l’istruzione, che secondo l’articolo 34 della Costituzione dovrebbe essere garantita a tutti, è sempre più affidata al privato. Insomma, oltre alla Schlein stiamo importando il modello californiano. E il suo fallimento.
