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Mario Giordano: «Gli sciacalli della nostra sanità»

Mario Giordano: «Gli sciacalli della nostra sanità»

Gli sprechi in corsia e i guadagni stellari delle compagnie farmaceutiche, le attese infinite per le visite, i tagli ai servizi essenziali e il cinico business intorno ai pazienti. Il giornalista anticipa, in esclusiva a Panorama, il suo nuovo libro «Sciacalli». Ecco chi si arricchisce sulla nostra pelle.


«Mi sono trovato un dossier sul tavolo, me lo aveva lasciato il ministro per chiedere un parere». Su cosa? «Dovevamo pagare 20 milioni di euro a due aziende farmaceutiche». Venti milioni? «Sì». Per avere che? «Il diritto di prelazione su un vaccino in caso di pandemia». Cioè per l’acquisto? «No, non per l’acquisto. Solo per il diritto di prelazione». Cioè 20 milioni per il diritto ad avere vaccini nell’eventualità di una pandemia? «Esatto».

Senza sapere di che pandemia stessimo parlando? «Esatto». Dunque senza sapere di che vaccino stessimo parlando? «Esatto». Solo per avere, nell’eventualità, il diritto di comprare? «Capisco il suo stupore». Quando il dottor Armando Bartolazzi, medico assai quotato e ex sottosegretario alla Salute nel primo governo di Giuseppe Conte, mi ha raccontato questo episodio, era l’autunno 2019 e il coronavirus non sapevo nemmeno che cosa fosse. Però mi aveva colpito scoprire che c’erano rappresentanti di aziende farmaceutiche che andavano in giro a offrire, al modico prezzo di 20 milioni di euro, una specie di prelazione per comprare il vaccino in caso di pandemia. Sia chiaro: non penso che sapessero qualcosa in anticipo.

Niente complottismi, per carità. Ma mi domando: è giusto chiedere 20 milioni al buio per una prelazione sui vaccini in caso di pandemia? E questo vuol dire che in giro per il mondo c’è qualcuno che ha già pagato quella cifra? E quindi costui, quando finalmente il vaccino sarà pronto, passerà davanti agli altri? In virtù della prelazione? Dei 20 milioni sborsati? E che prezzo avrà quel vaccino? Se lo potranno permettere tutti?

Domande lecite, mi auguro. Anzi, domande che dovremmo farci con una certa urgenza. Il rapporto tra soldi e salute, infatti, sarà il vero nodo cruciale dei prossimi anni. E non solo per i virus. «Per ogni malato di cancro ai polmoni» mi disse in quell’occasione il dottor Bartolazzi «oggi spendiamo, con le terapie innovative, l’equivalente di due Ferrari. Ma tra un po’ le Ferrari diventeranno quattro. Fino a quando potremo permettercele? Arriveremo al punto di cui si dirà: tu hai 40 anni, ti possiamo curare. Tu ne hai 41, troppo vecchio, non ti cureremo più». Pensavo, allora, che stesse esagerando. Abbiamo capito, nella ultime settimane, che non siamo troppo lontani da lì.

La sanità ci salva la vita, ma poi chi salva la sanità dagli sciacalli? Per anni abbiamo trascurato questo tema. Sembrava irrilevante. Intanto lasciavamo che fossero dragati soldi al settore: non c’è stato Consiglio dei ministri degli ultimi decenni in cui non si discutesse di come risparmiare sulla salute dei cittadini. Ai medici (che oggi tutti chiamano eroi) sono stati tolti 37 miliardi di euro in dieci anni, altri denari sono stati sprecati in ospedali mai aperti e padiglioni fantasma.

È noto. Ma c’è anche altro, di cui si parla meno. Per esempio: la sanità pubblica non potrebbe risparmiare sull’acquisto dei farmaci? Nel dicembre 2018 la Regione Piemonte è riuscita a comprare un medicinale contro il cancro (imatinib) con un risparmio del 99 per cento: è bastato passare dal principio originale al similare, organizzando regolare gara. Lo stesso ha fatto con un altro farmaco (trastuzumab) risparmiando il 71 per cento (da 565 a 163 euro). Benissimo, penserete voi. Lo faranno tutti. Macché: mesi dopo in Umbria quello stesso farmaco trastuzumab veniva pagato non 163 ma 762 euro. Cinque volte di più. E perché? Mistero della fede farmacologica. Infatti: forse pochi lo sanno ma il prezzo a cui lo Stato acquista le medicine è un segreto, più segreto del segreto di Fatima.

Farmindustria parla di «riservatezza che serve a tutelare l’accordo raggiunto». Sarà, ma è un po’ strano, no? È come se al mercato fossero tolti i cartellini alla frutta e alla verdura: il prezzo viene sussurrato dal venditore all’orecchio dell’acquirente. «Se non riveli la cifra a nessuno, ti faccio uno sconto speciale». Alla fine ognuno è convinto di avere spuntato il prezzo più basso. Ma è evidente che non è così. Luca Li Bassi, fino a ottobre direttore generale dell’Aifa, ci scherza su: «Quando ci troviamo alle riunioni dei vari enti nazionali, io italiano con quello tedesco, verrebbe naturale da chiedere: tu quanto l’hai pagato quel farmaco? E quell’altro? Ma non possiamo farlo per le clausole di riservatezza. C’è da ridere: a tutti noi è stato detto che abbiamo pagato il prezzo più basso e tutti sappiamo che non può essere vero…». Proprio come nel nostro ipotetico mercatino, tra pere, mere e figure da cachi.

Il prezzo dei farmaci deve essere trasparente: lo prevede una direttiva europea del 1989, che però non è mai stata applicata. Peccato perché su questo punto si gioca una partita fondamentale, come ha dimostrato anche l’emergenza coronavirus. Viviamo infatti in uno strano paradosso: abbiamo a disposizione medicine sempre più sofisticate, poi mancano i respiratori all’ospedale di Bergamo. Produciamo farmaci da due milioni di dollari, ma non ci sono posti in terapia intensiva a Cremona. I medici non hanno camici a norma e il prezzo di una pillola contro il cancro aumenta del 1.540 per cento in un giorno, solo perché l’azienda ha cambiato proprietà. Quello dei farmaci è l’unico settore dove il progresso ha fatto aumentare i costi. Pensate ai trasporti: nel 1953 per andare da Roma a New York ci volevano 10 giorni in nave e 5.300 dollari. Oggi 9 ore di aereo e 225 dollari. Migliora la tecnologia, si riduce il prezzo. Al contrario di quello che succede con i farmaci. Qualcuno dice: sì, ma questi ultimi spesso sono l’unica chance per sopravvivere. Perfetto: ma allora quanto dovrebbe costare un salvagente? Anche la ricerca: oggi scopriamo quanto sia importante. Non sarebbe giusto che gli Stati ci investissero di più? Perché l’abbiamo lasciata per anni nelle mani dei privati? La Glaxo è stata condannata per aver nascosto i danni di un antidepressivo usato anche per i bambini. In Francia è in corso il processo alla Servier: avrebbe provocato duemila morti tacendo i rischi della pillola per i diabetici. Negli Stati Uniti ci sono 22 aziende farmaceutiche sotto accusa per aver spinto antidolorifici capaci di creare dipendenza e 400 mila morti in dieci anni.

C’è da fidarsi? Fra l’altro soltanto il 40 per cento dei risultati degli studi farmaceutici oggi viene pubblicato. Ed è un danno incalcolabile perché la ricerca avrebbe bisogno di tutti i dati: dipendiamo dai dati, come si è visto anche in questi giorni. Perché nasconderli? Nel giugno 2019 il Washington Post ha rivelato che Pfizer aveva scoperto un farmaco capace di avere risultati nel 64 per cento dei casi sui malati di Alzheimer. Non ha ritenuto di pubblicarli. Suo legittimo diritto, si capisce. Ma è giusto? Questo bisogna chiedersi: è giusto il sistema che abbiamo costruito? Giovanni Battista Gaeta, infettivologo di fama e docente all’Università Luigi Vanvitelli, è stato incaricato di scrivere le linee guida della Regione Campania sull’uso dei farmaci. Abbiamo scoperto che lo stesso dottor Gaeta risulta aver ricevuto un contributo in denaro dalla multinazionale Merck. Sono pochi soldi, certo. Ma bastano per far venire il sospetto: non sarebbe meglio se chi dà indicazioni ufficiali sull’uso dei farmaci non prendesse soldi da chi i farmaci li produce? Glielo chiediamo. E lui risponde: «Il sistema è questo. Buono o cattivo che sia, nessuno ne ha trovato uno migliore». E poi aggiunge: «Se le linee guida dovesse scriverle chi non prende soldi dalle case farmaceutiche, le dovrebbe scrivere l’usciere». Con buona pace dell’usciere, dopo il ciclone coronavirus, forse possiamo chiederci se per caso non sia possibile trovare un sistema migliore. Perché forse non ci sarà niente di male, ma a noi non sembra normale che prendano soldi dalle multinazionali non solo i dottori, non solo le società mediche, non solo le associazioni dei malati, ma anche le istituzioni pubbliche, le Asl e persino l’Istituto Superiore di Sanità, che in tre anni ha incassato 323 mila euro dalla Glaxo. Non tanti, ma forse troppi per quello che dovrebbe essere l’arbitro supremo e imparziale, non vi pare? L’Agenzia europea per il farmaco, poi, sta messa peggio ancora: l’84 per cento del suo bilancio dipende delle aziende farmaceutiche. Gli esperti lamentano che, in generale, i servizi sanitari nazionali spendono troppo per i medicinali e sarebbe meglio usare quei denari altrimenti. Ma come stupirsi se ciò accade? L’impressione è che molti farmaci non servano per curare le persone. Servono per curare i bilanci. E, in quello, va detto, funzionano benissimo.

«La metà dei farmaci è inutile» dice il più esperto e autorevole dei farmacologi, Silvio Garattini. E le ricerche confermano le sue parole. Nel luglio 2019, per esempio, una dottoressa dell’Istituto pubblico della sanità – Beate Wiesler – ha scoperto che su 216 farmaci nuovi messi sul mercato solo 54, cioè uno su quattro, ha portato reale beneficio. Ciò significa che tre su quattro sono stati sostanzialmente inutili. La rivista medica francese Prescrire ha pubblicato un elenco di 105 farmaci che provocano più danni che benefici. Tutto ciò fa tornare in mente quel presidente di azienda farmaceutica che diceva: «Il nostro obiettivo? Vendere medicine alle persone sane». Obiettivo centrato, si direbbe: basti pensare all’eccesso nell’uso di antibiotici (vera emergenza mondiale), allo spreco della vitamina D (320 milioni di euro buttati ogni anno in Italia), per non dire del proliferare di esami inutili (10 miliardi di euro buttati ogni anno in Italia) che per lo più servono a creare malati anche quando non ci sono. Perché pure in quello siamo stati bravissimi: nel creare malattie che non esistono, salvo poi non avere i mezzi per contenere quelle che ci distruggono davvero… Se vogliamo ricostruire la sanità bisogna tenere presente tutto questo. Bisogna metterci più soldi, certo: ma bisogna anche metterli bene. Capire dove vanno a finire. Negli ultimi dieci anni, per dire, in Italia i consulenti della Kpmg hanno incassato 100 milioni di euro per fare un lavoro che poteva fare tranquillamente lo Stato. Una delle Regioni dove gli esperti sono stati più presenti è stata la Calabria.

I risultati? Debito esploso e ospedali fatiscenti. I dati, in ogni caso, sono impietosi: dal 2009 al 2017 la spesa pubblica sanitaria italiana è cresciuta meno che in qualsiasi Paese Ocse (esclusi Grecia, Portogallo e Lussemburgo). Il nostro Stato investe per la salute di ogni cittadino 2.545 dollari, cioè 500 in meno della media Ocse (3.038). In compenso i cittadini italiani spendono di tasca loro 791 dollari, cioè più della media Ocse (716).

Un italiano su tre ormai paga le cure sanitarie essenziali di tasca sua, facendo così esplodere i guadagni della Salute Spa le aziende del settore hanno avuto negli ultimi anni crescite di fatturato fino al 40 per cento. Il motivo? Lo spiega uno studio Cergas Bocconi: «La domanda insoddisfatta del Servizio Sanitario Nazionale diviene area strategica». Perfetto, no? L’insoddisfazione dei malati è strategica per i bilanci aziendali. Vi siete mai chiesti perché in certi ospedali ci vogliano 550 giorni per una mammografia? E perché in generale i tempi di attesa per una visita si allunghino sempre di più? Ecco: è l’insoddisfazione che diventa strategica. E di strategia in strategia sulla sanità si stanno già avventando anche altri soggetti interessati al grande business del presente e del futuro, dalle assicurazioni, che s’inventano nuove formule sempre più aggressive, ai giganti del web, disposti a investire montagne di dollari anche per acquisire i dati dei malati. Tutto legittimo, per carità.

Ma bisogna stare in guardia. Evitare abusi. E soprusi. «La salute è la cosa più importante» ci ripetiamo da sempre. Eppure per anni ci siamo dimenticati di investire, di controllare, di conoscere, e abbiamo lasciato via libera agli sciacalli, quelli che di fronte ai pazienti non pensano a curarli ma a farli rendere. Chissà se lo choc del coronavirus ci darà la forza per cambiare strada.

UN LIBRO CHE FARA’ SCALPORE

Mario Giordano: «Gli sciacalli della nostra sanità»
UN LIBRO CHE FARA’ SCALPORE

di Mauro Querci

Quando un libro contiene tanti numeri è spesso respingente Sciacalli. Virus, salute e soldi. Chi si arricchisce sulla nostra pelle di Mario Giordano (Mondadori, pp. 204, euro 19) ha l’effetto opposto.

A ogni cifra che aggiunge fa crescere la rabbia e proseguire nella lettura. Inchiesta coraggiosa su sprechi pubblici, arbitri della classe medica, interessi di gruppi privati del settore, rivolta come un calzino i 114 miliardi che il bilancio statale destina, ogni anno, alla Sanità. Emergono così i costi abnormi (che dire dei circa 2 miliardi di euro di risparmi immediati se si facessero pagare lo stesso prezzo in tutta Italia siringhe e altri semplici dispositivi?). Soprattutto fanno arrabbiare i guadagni stellari delle case farmaceutiche su forniture ospedaliere (un prodotto contro l’ipertensione fatto pagare circa 2.200 euro e che dovrebbe costarne 27). Pagine che fanno ancor più riflettere mentre l’Italia combatte Il coronavirus, con spunti preziosi per immaginare una Sanità più giusta. Sempre che ci sia una classe politica capace di raccoglierli.

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