L’articolo di un addetto ai lavori dopo una visita fatta al Mart di Rovereto apre una riflessione sulla funzione di queste istituzioni culturali. Che per il critico di Panorama devono avere il coraggio delle scelte espositive controcorrente.
Dopo la condanna di alcuni molesti che avevano giudicato il Mart di Rovereto, senza averlo visitato da quando io lo presiedo, il peggiore museo d’Italia, arrivano segnali rassicuranti da osservatori onesti che potevano serenamente assestarsi sulle posizioni polemiche, ma hanno preferito, diversamente da mercanti come Massimo Di Carlo, verificare con i loro occhi vedendo le mostre e misurando l’intensità attività di questi tempi difficili. Massimo Minini, che si è recentemente espresso anche in questa sede sulla prossima Biennale di Venezia, è riconosciuto come uno dei massimi galleristi, attivo a Brescia, dove ha proposto i più noti e importanti artisti italiani e internazionali di questi anni: Giulio Paolini, Anish Kapoor, Carla Accardi, Sol LeWitt, Maurizio Cattelan, Dan Graham…
Dopo le critiche, ha pensato bene di venire a Rovereto e offrirci, in un Pizzino pubblicato su Il Foglio, le sue osservazioni: «Vittorio, ieri mi sono levato una curiosità, sono venuto a Rovereto per vedere come avevi sconciato il Mart, un museo con parcheggio facile, bagni puliti, bello, visitato tante volte sotto la prima mitica direzione con grandissime mostre, il Mart dei Morandi della collezione Giovanardi. Dopo l’Impero Belli avevo rallentato (sai l’età), e dopo il tuo atterraggio senza carrello, con i pompieri e la schiuma sulla pista volevo capire polemiche, dimissioni, agitazioni del personale, insomma cosa avevi combinato per ridurre uno dei nostri musei più belli al relitto eletto a maglia nera dei musei d’Italia. Ora un museo è fatto anche di mattoni, e questo è disegnato da Botta, con sale belle, con quattro piani di capolavori, forse un po’ complicato nelle scale… Sai che siamo su posizioni distanti, che difendiamo arti diverse, che abbiamo avuto da ridire l’uno dell’altro per le scelte di campo. Ma insomma, ho pensato, ci vuole una bella determinazione per distruggere il Mart e farlo precipitare, e così sono venuto alla presentazione della mostra dei dipinti di Arturo Nathan (chi era costui?)».
La premessa non è incoraggiante e rivela la forza della maldicenza, che predispone al pregiudizio. Poi, gli effetti della visita: «Visito la collezione, il museo mi pare a posto, pulito come si conviene a un luogo pubblico della Mitteleuropa, ma già con una vivacità del sud bella frizzante. A un certo punto entro in due sale con strani dipinti inizio secolo XX, cerco i cartelli… ma è Nathan! Mai sentito, mai visto, un pittore di Trieste, straordinarie opere di pittura, con echi, certamente, tra De Chirico e Carrà, con il sogno del doganiere Rousseau, una scoperta, morto in campo di concentramento. Quando ti impegni senza polemiche fai sempre scambi straordinari. Più avanti la mostra su Canova, curiosa, un po’ piena di tante contraddizioni che evidentemente nelle tue intenzioni vorrebbero porgerci una lettura contemporanea. Comincio a capire meglio. Hai un modo bulimico di procedere, vuoi vincere subito, vuoi dire tutto aiutato dalla facilità di parola. Alla conferenza stampa hai sotterrato la platea con un racconto affabulatorio dove hai narrato le mostre presenti (Depero, Romolo Romani, Canova, Nathan), e quelle a venire. Ma esageri. Vedi, come dicevo poco fa, vuoi stupire con la tua poliedricità, con questo passare dall’oggi al domani, da Burri a Caravaggio. Ti piace recuperare artisti sfortunati (Romolo Romani, Nathan), ti piace nominare artisti pochissimo conosciuti e dirci in faccia che siamo ignoranti, delle capre. Ora sono più tranquillo, con Sgarbi si può e si deve dissentire, ma il Mart è salvo. Sgarbi non è il Mart, è solo il conduttore pro tempore di un gioiello. Non piace come guida? Stop and go, frenate e brusche accelerate. Pare di essere sulle montagne russe».
Qui Minini mostra di avere capito e di riconoscere un metodo. Così riprende: «Sì, esageri, ma mi è piaciuta l’aria vivace che ora regna al Mart, questa casa di montagna per artisti figurativi. Se riesci a mettere nelle tue classifiche alcuni grandi che ti sei inimicato, e far loro posto cancellando alcuni di quelli che promuovi, puoi fare bingo. La complessità dell’arte italiana è grande, avrà il suo punto più basso alla prossima Biennale di Venezia: un solo artista al comando. Tu sei l’esatto opposto. Il tuo memorabile, orrido, tenero padiglione italiano in Biennale contava centinaia di nomi tra cui una dozzina passabili». Un’ importante ammissione, dopo il diluvio di critiche di quella occasione, 11 anni fa. E un consiglio: «È ora di fare classifiche, elenchi ristretti. Dobbiamo sacrificare molti amici? Difficile, anche per me, ma smettiamola di fare i capricci. Non puoi sostenere che Vallazza è meglio di Paolini, che Frongia batte Buren, che Ventrone svetta su Fabro. Altrimenti dai armi ai tuoi detrattori». La chiusura dell’articolo è assolutoria e fenomenale: «Comunque, visitate il Mart, oggi il più bel museo d’Italia, esagerato, sgarbista, scambista. Un museo didattico dove alcune brutte opere sono inserite a bella posta per farci meglio capire cos’è il Bello: le Belle Arti».
Dovrei essere, e sono, soddisfatto, e mi augurerei che tanti avessero l’onestà e l’equilibrio di parlare a ragion veduta. Perché io ho accolto una sfida: non fare del Mart un terminale di un’idea obbligata dell’arte contemporanea, stabilita da una critica asservita alle scelte arbitrarie ma decisive di un mercato dominante, con nomi già definiti; un senso unico, da cui non puoi uscire, con la certezza di essere emarginato. La storia non ha una sola direzione, e la contemporaneità è stata orientata dall’imperativo di Arthur Rimbaud: «Il faut être absolument moderne».
Certo, e dalle avanguardie, attraverso Marcel Duchamp, è stato sempre così. Ma quanti sentieri interrotti avremmo dovuto percorrere? Se non avessimo osato, e in tempi difficili, come si sarebbe potuto affermare la grandezza di Domenico Gnoli, che, a leggere la cronaca di Francesco Tenaglia, su Il Foglio, sembra scoperto oggi da Prada e da Germano Celant, che lo hanno per decenni ignorato? E non è certo stato Celant ad accostarlo (come io ho fatto con Caravaggio e Burri), all’«arte non eloquente» di Piero della Francesca, nell’interpretazione di Bernard Berenson.
Minini dovrebbe ricordare che, a proposito di pregiudizi e damnatio memoriae, Caravaggio per 300 anni è stato fuori moda, scavalcato da artisti assai meno significativi. Così, sotto la coltre delle tendenze prevalenti, tranne Alberto (e Diego) Giacometti, Balthus e Francis Bacon, sono stati sommersi decine di artisti figurativi, cui oggi non si potrà negare attenzioni: altroché le sedie a sdraio, meccanicamente ripetitive, di Daniel Buren.
Minini si aggrappa disperatamente agli artisti di un mondo dominante, e inevitabilmente travolto, salvo che nei presidi di un collezionismo autoreferenziale e sostenuto da una bolla finanziaria che tenta di imbrigliare la creatività, che non ha confini, e che deborda. Così, in nome della vita contro la forma, può uscire Nathan, rimasto ai margini di una storia scritta dai vincitori, che ha ammesso De Chirico (in parte), Morandi, Alberto Burri, Manzoni, Fontana, ma non ha avuto la stessa pazienza per Giannetto Fieschi o Franco Francese, o Gianfranco Ferroni, o Lino Frongia, perché inclassificabili.
Ci sono diversi livelli di presenza nella storia; è per questo che, prima o poi, Minini dovrà accorgersi di Pietro Annigoni e Carlo Guarienti, perfino della realtà aumentata di Luciano Ventrone rispetto a quella stitica, più avara che povera, di Paolini e di Fabro. Verrà il tempo degli artisti generosi, che non si risparmiano: Adolf Vallazza e Varlin, e Paolo Vallorz (cui concesse il suo sguardo Giovanni Testori, e fu generoso anche lo sguardo).
Per questo sto sulle montagne russe, perché arriva il tempo di chi non è stato visto, è stato ai margini, e quando arriva travolge le didascaliche applicazioni di chi ha mortificato la vita: e il mercato non potrà non registrarlo. Domenico Gnoli, Antonio López García, Alex Colville, Lucian Freud, Andrew Wyeth. Esiste una storia parallela? No: c’è una sola storia alla quale alcuni non sono (temporaneamente) ammessi. Ed è di questi, a diverse profondità, che io mi occupo. Non sono qua per riabilitarmi, ma per risarcire un tessuto strappato. Soltanto così può riemergere un artista, nascosto nelle pieghe della Storia, come Nathan.
