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La mappa della pittura italiana di Roberto Longhi

La mappa della pittura italiana di Roberto Longhi

Saggista geniale, scrittore raffinato, con le sue intuizioni ha tracciato la nuova mappa della pittura italiana: partendo dal Medioevo, esaltando la grandezza di Caravaggio, per arrivare alle inquietudini novecentesche di Giorgio Morandi.


Per comprendere l’importanza dell’opera di Roberto Longhi nella storia della critica d’arte bisogna immaginare un «prima» e un «poi». E, in mezzo al prima e al poi, un ponte. Il prima è uno studioso che ha qualche punto di collegamento con lui, Giovanni Battista Cavalcaselle, il quale nella seconda metà dell’Ottocento si trova nelle condizioni di curiosità e desiderio di costruire una storia dell’arte italiana insieme al suo amico, il britannico Joseph Archer Crowe. Fa quindi un complesso viaggio in Italia, scuola per scuola e area per area; però non porta al collo quell’oggetto che noi conosciano bene, una macchina fotografica.

L’assenza di fotocamera determina che la conoscenza diretta delle opere secondo l’esperienza, la capacità e la forza di intuire le forme si accompagna a una trascrizione dell’immagine attraverso il disegno e le notazioni cromatiche. Per cui ci sono disegni molto precisi derivati dall’opera, come strumenti mnemotecnici, cui si aggiungono i colori.

Questa fase, come dire primordiale, quest’«incunabolo» della critica d’arte fatta con la conoscenza diretta delle opere viene sostituita appunto dal disegno che accompagna il viaggio di Cavalcaselle e gli consente di capire e collegare un’opera con l’altra.
Subito dopo, sul finire del secolo XIX, quest’operazione viene ripetuta in modo altrettanto programmatico da Bernard Berenson, il quale oltre che raccontare quello che pensa dei pittori, appronta «indici», ossia una serie di cartelle fotografiche, da cui originano quei fondi preziosi per i critici d’arte che sono le fototeche.

L’archivio delle immagini di Berenson genera una serie di volumi sull’arte italiana che sono in realtà l’accompagnamento del racconto critico, il catalogo delle opere, con l’indicazione dei luoghi, delle scuole, attraverso le fotografie. In quel momento Longhi, che è di una generazione successiva a quella di Berenson, si avvantaggia delle fotografie per raccontare una storia dell’arte che l’altro ha semplicemente catalogato.

Diciamo quindi che la svolta è fare, attraverso il ponte di Berenson, il collegamento con Cavalcaselle. Longhi ricomincia dov’era arrivato Cavalcaselle, attraverso la documentazione di Berenson. Quindi l’apparato fotografico è fondamentale per la sua conoscenza, la fototeca è fondamentale, alcune fotografie sono una parte fondamentale della sua vita, ai suoi allievi mostrava piccoli dettagli per indurli a (ri)conoscere.

Questa peculiarità è talmente essenziale che ha un altro riscontro: la storia dell’arte non è mai stata studiata nelle scuole ed è arrivata molto tardi non per ragioni strutturali, ma perché non era ancora abbastanza diffusa la pratica della fotografia.
È allora la fotografia la chiave di tutto: quando questa raggiunge un’ampia diffusione, la storia dell’arte diventa una materia d’insegnamento.

E sono gli anni di Longhi: il critico si trova tra il 1914 e il 1920 a lavorare su questo enorme materiale, a collezionare e collegare, a creare la disciplina che c’era già con i suoi predecessori Lionello Venturi e Pietro Toesca e però era una disciplina più indiziaria: nel senso che c’erano le foto, ma la fotografia come strumento sistematico, che poi porterà al paradosso dell’enorme fototeca di Federico Zeri, passa attraverso la fototeca di Longhi.

La fototeca di Longhi è uno strumento di servizio che noi suoi allievi (io ero borsista della fondazione Longhi) andavamo a consultare. La svolta longhiana è la presa d’atto di una storia che si può raccontare per immagini e non per parole: il critico da un lato utilizza le immagini come nessuno prima di lui, sostituendole al disegno di Cavalcaselle, dall’altro si pone il problema di raccontare quelle immagini.

Il suo è un racconto verbale ispirato da un racconto fotografico, cosa che agli altri non era consentito. Dobbiamo immaginare che quando Longhi ha davanti questo materiale, mette insieme le fotografie di un pittore del Trecento, del Quattrocento, di Masaccio, si diverte e si accorge dei caratteri distintivi dell’uno e dell’altro, crea una connessione fra i particolari delle opere e quella necessità di descrivere qualcosa che in quel momento non sta più vedendo dal vivo ma in fotografia.

Quindi la fotografia è il motore delle parole, e le parole raccontano una storia fatta di accostamenti e di confronti, di diversità di mani, di verifica dove c’è Masolino, dove c’è Masaccio… Direi che la svolta longhiana è semplicemente il racconto fotografico diventato racconto verbale sulla base di un materiale che con lui diventa essenziale e senza limiti di quantità: l’approvvigionarsi di fotografie per Longhi è come respirare. Mi pare che questa sia la chiave su cui nessuno si è soffermato prima: cioè la necessità di una valutazione delle opere dopo il «vivo» sulle fotografie. Così le fotografie diventano lo stimolo al suo testo.

Il capolavoro di Longhi è forse il saggio sull’Officina ferrarese, perché è la nascita di una scuola che era già stata intuita dal Cavalcaselle, ma non era diventato un mondo. Nel 1934, Longhi scrive dopo la mostra del 1933 sulla pittura del Rinascimento a Ferrara in occasione del quarto centenario della morte di Ludovico Ariosto, e inventa con felicissima formula l’«Officina».
Il critico vede queste opere e crea un’identità padana e ferrarese che prima era soltanto indiziaria. È un miracolo di elaborazione di un’identità figurativa che prima era sommersa o confusa con altri elementi padovani, veronesi, lombardi.

L’altro saggio bellissimo di Longhi è il Viatico per cinque secoli di pittura veneziana, che è anch’esso il commento a una mostra: racconta da Paolo Veneziano a Canaletto la lunga storia di cinque secoli appunto di quella pittura – non essendo tra l’altro lui veneto – con una capacità di oggettivazione della materia che gli studiosi veneziani venuti in seguito non hanno poi avuto.
Ci sono inoltre i saggi su Masolino e Masaccio, su Piero della Francesca. E soprattutto, terzo elemento fondamentale per Longhi, lo spostamento dell’asse della pittura dal Rinascimento al Barocco.

Dunque la fine del percorso berensoniano, che è quello dei pittori del Rinascimento, per entrare dentro quella penombra o quest’ombra straordinaria del Barocco, dando corpo alla personalità di Caravaggio – che prima di lui era in qualche modo soffocata – e, conseguentemente, a quella dei pittori caravaggeschi.

Longhi ha coniato il termine «Padanìa» per delimitare il territorio di produzione dell’arte padana, quello che potremmo definire «terzo polo» o «terzo centro» della pittura italiana rispetto a Firenze e Venezia. Si tratta della intuizione critica longhiana sullo spirito dell’arte che si cala nei luoghi (hegelianamente).

Esiste una contemporaneità tra l’Officina ferrarese, che è una definizione felice e proto-pasoliniana di Longhi e, più o meno dello stesso momento, la prolusione al corso di laurea del primo anno in cui fu nominato professore a Bologna: «Momenti della pittura bolognese ed emiliana». Qui studia in modo approfondito la pittura del Trecento (rispetto alle fonti storiche che ne davano notizia non così connotata, come una condizione psicologica che possiamo definire bolognese o padano), a partire dal trecentesco Vitale da Bologna, in un percorso critico che investe tutti gli artisti che saranno il mondo in cui si muoverà un altro critico insigne Francesco Arcangeli: da Wiligelmo tra i secoli XI e XII a Giorgio Morandi nel Novecento.

E proprio il Morandi di Longhi è un coetaneo in cui si raggiunge la quintessenza della Padanìa, e che si svolge in tutta l’area padana, Milano compresa, avendo come momento di maggiore evidenza proprio Caravaggio. Questi è l’artista padano per eccellenza, ed è anche un artista che fa una rivoluzione. Quindi se occorre dire cosa vuol dire Padanìa, Caravaggio ne è la misura più compiuta. Contemporaneamente, nel 1934, come ricordato Longhi scrive l’Officina ferrarese, che è una variabile della Padanìa e indica il primato dei pittori ferraresi, o per lo meno la loro identica importanza rispetto a quelli toscani del Rinascimento.

Dunque Padanìa e Officina ferrarese sono uno stesso principio articolato sul fuoco di Ferrara. E però è, evidentemente, un inserto geografico fra il mondo dell’arte toscana, che è, come nella letteratura e nella lingua italiana, eminente, e la civiltà veneziana, che ha una sua autonomia. In mezzo, questa dimensione padana che Longhi, meglio e prima di ogni altro, ha sistematizzato, divisa fra il percorso bolognese ed emiliano e quello ferrarese, a sua volta una componente della Padanìa.

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