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Lula: delitto senza castigo

Lula: delitto senza castigo

La cancellazione delle condanne per riciclaggio e corruzione dell’ex presidente brasiliano, che aveva già cumulato 25 anni di carcere, inaugura il «nuovo corso giudiziario» dell’America latina. Dove, da oggi, colpevoli «eccellenti» potranno restare impuniti.


Fino a oggi esistevano solo tre categorie giudiziarie, i condannati, gli innocenti e quelli che avevano scontato la pena. Adesso però in Brasile si sono inventati la fattispecie degli ex condannati». È ironico Mario Sabino, fondatore del sito O Antagonista, una bibbia per chi vuole capire come sia possibile che d’ora innanzi l’8 marzo in Brasile non sarà più solo ricordato per la Festa della donna, ma diventerà la «giornata della purificazione della fedina penale dell’ex presidente Lula».

Grazie a una decisione senza precedenti di uno dei giudici del Tribunale supremo federale (Stf), Edson Fachin, tutti i processi contro Luiz Inácio Lula da Silva, ex protettore del terrorista Cesare Battisti sono stati annullati. Comprese le condanne per corruzione e riciclaggio in terzo grado già confermate dal Tribunale superiore di Giustizia (Stj). «È il trionfo dell’impunità, che di fatto rende da oggi impossibile condannare per corruzione qualsiasi politico» dice a Panorama Sabino.

Sono chiare le conseguenze della cancellazione delle condanne contro Lula, che cumulava già 25 anni di carcere ma rischiava «quota 100» per le tangenti pagate dalla multinazionale edile e infrastrutturale Odebrecht legate al terreno e alla costruzione dell’Istituto Lula, la fondazione creata dall’ex presidente per fare «lobbyng» internazionale. Tutti gli altri condannati dall’operazione Mani Pulite verde-oro, la cosiddetta Lava Jato, saranno liberi perché i loro avvocati si appelleranno a questa giurisprudenza.

Una manna per chiedere la cancellazione delle condanne ai loro assistiti, corrotti e corruttori. Tra i nomi illustri, l’ex sindaco delle Olimpiadi di Rio Sergio Cabral, già condannato in 18 processi a 342 anni di carcere per ogni sorta di reato, e Vaccari Neto, ex tesoriere del Pt – il Partito dei Lavoratori fondato nel 1980 da Lula – già condannato a 24 anni per tangenti.

Fachin, autore del colpo di teatro che rilancia Lula alle presidenziali 2022, è un giudice che deve la sua carriera proprio al Pt. Già avvocato della formazione lulista e del sindacato fondato da Lula, la Cut, il magistrato fu scelto per la Corte suprema dalla delfina di Lula, Dilma Rousseff che lui stesso aveva appoggiato nella campagna presidenziale della ex guerrigliera.

Il vento della politica giudiziaria è dunque cambiato in Brasile e così come nel resto dell’America Latina, un fenomeno rafforzatosi con la vittoria di Joe Biden negli Stati Uniti. Come altrimenti spiegare la sterzata di 180 gradi del Tribunale supremo che, mentre nel 2016 aveva contribuito all’arresto di Lula impedendogli di fare il ministro di Rousseff (incarico che gli avrebbe garantito l’immunità), oggi cancella con un colpo di spugna tutto, come se non fossero mai esistiti i 2,6 miliardi di dollari di multa imposti dalla giustizia Usa a Odebrecht? Si tratta della maggior multa americana di sempre per l’enorme schema di tangenti in decine di Paesi nell’era di Lula. Non a caso la società è stata costretta a cambiare nome e oggi si chiama Novonor.

Paradossale che se l’ex presidente brasiliano accusa ora i magistrati anticorruzione della Lava Jato di essere «un’associazione a delinquere», a fargli eco ci sia un altro giudice del Tribunale supremo, Gilmar Méndez, che ha definito la Mani Pulite brasiliana, «lo scandalo giudiziario più grande della storia del mio Paese». Lula dice insomma ciò che con altre parole conferma un alto magistrato che potrebbe mettere presto sul banco degli imputati il giudice Sergio Moro, considerato appena tre anni fa, quando furono arrestati per la prima volta politici e imprenditori poderosi, il paladino della lotta contro la dilagante corruzione degli anni del Pt al potere.

Tornano i tempi di Barack Obama, quando Lula per l’ex presidente Usa era «il miglior politico del mondo» e il suo nome era in lizza come possibile segretario generale Onu. Ma a festeggiare è la sinistra internazionale tutta, con in prima fila quella cattocomunista, che difende dittature crudeli e corrotte come la cubana, la sandinista di Daniel Ortega in Nicaragua e quella del successore di Hugo Chávez in Venezuela, ribattezzata dalla narrativa «socialismo del secolo XXI».

Non è certo un caso che lo stesso Lula continui a ringraziare oggi da «uomo onesto» il Gruppo di Puebla, ovvero il braccio politico della sinistra latinoamericana che in un manifesto di qualche mese fa prevedeva proprio l’imminente «riconquista del socialismo del secolo XXI» dell’America Latina, dove sono attivi molti europei a cominciare dall’ex leader spagnolo José Luis Rodríguez Zapatero, l’iberica Podemos, e le frange dalemiane di ciò che resta del vecchio Pci.

Lula ringrazia anche Papa Francesco, per avergli scritto in prigione durante i suoi 580 giorni di detenzione di lusso a Curitiba e per averlo ricevuto, poco dopo la sua scarcerazione, in Vaticano. Parole di miele che sono un segnale delle ramificazioni italiane del cattocomunismo lulista anche per Massimo D’Alema, che addirittura mandò l’ex ministro dell’Economia italiano, Roberto Gualtieri a trovarlo in carcere, a Curitiba, portandogli i suoi omaggi.

Insieme al Gruppo di Puebla, altro sponsor del «socialismo del secolo XXI» che Lula omaggia di continuo è il Foro di San Paolo, creato da Fidel Castro nel 1990, dopo la caduta del Muro di Berlino e che è il braccio politico più radicale della sinistra del continente, avendo tra le sue componenti anche gruppi narcoterroristi come l’Esercito di liberazione nazionale colombiano.
Insomma, l’appoggio dei paladini del popolo «alla Lula» è molto più ampio di quanto non si pensi e quella dell’ex presidente del Brasile è solo l’inizio di una rivincita – con annessa riabilitazione – dei politici latinoamericani che, negli ultimi cinque anni, sono stati coinvolti in processi per corruzione.

Dall’argentina Cristina Kirchner – già due volte presidente e mai stata arrestata nonostante le richieste della giustizia solo per l’immunità senatoriale – all’ex presidente dell’Ecuador Rafael Correa, latitante di lusso rifugiatosi a Bruxelles, la lista è lunga. L’ex «presidenta» argentina è addirittura riuscita a farsi eleggere vicepresidente, piazzando il figlio Maximo Kirchner alla guida de La Campora, fazione peronista in simbiosi con il «socialismo del secolo XXI» inventata da Chávez, mentre a Buenos Aires è in corso un riassetto della giustizia impressionante, proprio per ripulire la fedina della vedova di Néstor e dei suoi ex ministri.

Del resto, la «purificazione penale», dopo Lula sta per arrivare a molti politici di quell’area. Rafael Correa, per esempio, oggi non può rientrare in Ecuador perché condannato a otto anni di carcere per tangenti milionarie ma, questione di settimane, potrà farlo. L’ex presidente, che ha svenduto alle multinazionali estrattive cinesi parchi millenari come lo Yasuní e cordigliere come quella del Cóndor, è infatti riuscito a imporre in Ecuador Andrés Araúz, suo ex ministro «della Conoscenza e del talento umano» che sarà quasi certamente eletto alla guida del Paese il prossimo 11 aprile.

Un prestanome perfetto per la riabilitazione giudiziaria di Correa in Ecuador, al pari di quanto ha fatto Evo Morales in Bolivia. L’ex presidente «cocalero» che sogna di tornare in sella – questo per lo meno è il programma del Gruppo di Puebla – è riuscito a mettere a capo del suo Paese un prestanome, il suo ex ministro dell’Economia, Luis Arce. Non a caso la giustizia di La Paz ha già provveduto a tempo di record ad arrestare l’ex presidente Jeanine Áñez, con l’accusa ridicola di terrorismo, una decisione criticata persino dall’Unione europea, in politica estera molto vicina al «socialismo del secolo XXI» prima grazie all’ex ministra degli Esteri dell’Ue, Federica Mogherini, e oggi al socialista iberico Josep Borrell.

Resta la pantomima nella lotta contro la corruzione in America Latina quando coinvolge figure a sinistra; e, nonostante la «ripulitura» della fedina penale di Lula, è bene ricordare i numeri delle tangenti denunciate da media e magistrati pagate a politici locali da Odebrecht nella regione: dal 2007 al 2014, 35 milioni di dollari nell’Argentina kirchnerista, 33 milioni nell’Ecuador di Correa, 98 milioni nel Venezuela di Chávez e Maduro, 92 nella Repubblica Dominicana. Nulla si sa su Cuba, il Paese dove la multinazionale ha investito di più durante le presidenze del Pt, ma il motivo è ovvio: all’Avana la giustizia indipendente è una chimera.

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