Se le copie dei giornali calano e le edicole chiudono non è colpa del web, delle fake news o dei creduloni, ma di un certo tipo di stampa. Perché invece di raccontare ciò che interessa al pubblico, cioè ai lettori, preferisce riferire ciò che interessa al potere.
Agli inizi di agosto mi è capitato di fare uno di quei dibattiti in piazza che le pro loco organizzano nella speranza di rendere meno noioso il soggiorno dei turisti. Confesso, non mi ero curato molto né dell’argomento in discussione né dei partecipanti al confronto, forse rassicurato dal fatto che la serata non si sarebbe svolta a molta distanza dal luogo in cui stavo passando qualche giorno di vacanza. Risultato, mi sono trovato a parlare di fake news con alcuni professori e, tra gli ospiti, anche con Michele Cucuzza, che sull’argomento ha scritto un libro. Sul palco tutti parevano molto preoccupati del fenomeno, al punto da mettere in campo approfondite analisi, comprensive di dotte citazioni. «Pensate» ha lanciato l’allarme uno dei presenti, di cui – e me ne scuso – non ricordo il nome «di recente c’è anche chi in rete ha dato credito a quanti pensano che il coronavirus non esista». Sottinteso: la responsabilità è di internet e dei nuovi media, che per gli illustri intervenuti, a quanto pare, sono da prendere con le pinze.
Ora, io non sono un tifoso di Mark Zuckerberg. Per quel che mi riguarda non uso né Facebook né TikTok, che lascio volentieri a mia figlia. Tuttavia non penso che la colpa sia di un mezzo che ci ha alleggerito la vita, ma semmai di chi lo usa con leggerezza, senza far funzionare il cervello. Premesso che già detesto chi invece di chiamare le cose con il nome italiano – ossia notizie false, balle, bugie, frottole, fandonie e così via – deve ricorrere al termine inglese, però poi che c’entra internet con i fabbricanti di menzogne? Forse c’era Larry Page (il fondatore di Google) quando qualcuno pensava che la terra fosse piatta? Anche adesso esistono i terrapiattisti e si danno pure appuntamento ogni anno, ma credo che con il web abbiano poco a che fare. E che dire di quelli che credono che Neil Armstrong non abbia mai messo piede sulla Luna e che la missione Apollo sia tutta una bubbola inventata dalla Cia? Anche in questo caso, come per quello in cui Galileo Galilei fu costretto all’abiura, internet non c’entra. E con quelli che sono convinti che l’attentato alle Twin Towers sia tutta una montatura del Mossad, perché tra le vittime non ci sarebbe nemmeno un ebreo, come la mettiamo? Anche questa sòla la addebitiamo ai social network? L’elenco potrebbe continuare con quelli che dal 1977 si dicono arcisicuri che Elvis Presley non sia morto e da allora presidiano la sua stella sulla «Walk of fame» di Los Angeles, certi che prima o poi ricomparirà. Anche loro vittime di internet?
Io, come Cucuzza e i professori presenti al dibattito, appartengo più al mondo della carta stampata che a quello digitale, ma il declino dei giornali e dei mezzi tradizionali non lo imputo alle novità e nemmeno do la colpa ai giovani che – razza di perditempo – leggono meno. Se le copie calano e le edicole chiudono, più che andare a caccia di colpevoli, preferisco interrogarmi sui motivi. Dal che, guardando il numero incredibile di notizie false messe in circolo prima che internet nascesse, ne ho concluso che la colpa non è dei cretini (o dei creduloni, scegliete voi), i quali sono sempre esistiti e sempre esisteranno, a prescindere dal web. Se la stampa si vende meno, semmai, è perché invece di raccontare ciò che interessa al pubblico, cioè ai lettori, preferisce riferire ciò che interessa al potere.
A forza di parlare a Conte e compagni invece che a chi ogni giorno spende un euro e mezzo, finisce che la gente preferisce risparmiare i soldi e pensare ad altro. Insomma, la teoria che si deve combattere l’informazione digitale per salvaguardare quella analogica, in quanto è la sola a essere certificata, non mi convince per niente. Anzi, a dire il vero mi preoccupa. Perché in questa voglia di mettere il bollino di autenticità alle notizie scorgo una voglia di bavaglio che non mi piace per niente. Già in Italia abbiamo la magistratura, che vigila sulla stampa e se occorre la sanziona, nel caso di diffamazione aggravata, anche con il carcere. Poi c’è il tribunalino dei giornalisti, che ogni giorno passa al setaccio gli articoli e se scova le virgole fuori posto punisce chi le ha messe. Poi ci sono l’authority della privacy e pure il garante dell’informazione, che pesano con il bilancino ciò che viene scritto e quanto viene diffuso. Di recente ci si è messo pure il Parlamento, con una commissione contro le fake news. Risultato: a forza di commissioni, authority, ordini professionali e magistrati ho la sensazione che la sola cosa che rischia di mancare sia la notizia. Sepolta sotto un muro di conformismo, di locuzioni politicamente corrette e, soprattutto, di ipocrisia.
Anzi, per il dibattito del prossimo anno proporrò come tema: «La scomparsa della notizia». Che almeno è un argomento scritto in italiano
