I 100 metri sono metafora sportiva dell’esistenza in cui chi vince quella corsa a perdifiato, in poco più di un battito di ciglia, prende tutto. E passa alla storia. Da Jesse Owens che sfidò Hitler al nostro Marcell Jacobs, passando per Pietro Mennea e Carl Lewis, con velociste quali Wilma Rudolph e Marion Jones. Un libro narra la gara-mito.
Fiato sospeso e muscoli tesi sui blocchi di partenza ai mondiali di atletica di Helsinki, esattamente 40 anni fa. Finale dei cento metri, momento supremo. Si potrebbe aggiungere che non si sente volare una mosca, ma Carl Lewis alza il braccio perché «c’era una vespa che mi ronzava intorno. Ho cercato di scacciarla con una mano, senza riuscirci». Allo sparo dello starter il figlio del vento parte male ma ai 60 metri la musica cambia: innesta il turbo con una progressione che lascia senza fiato, la sua azione negli ultimi 40 metri è meravigliosa. È lì, nella parte lanciata, che l’erede di Jesse Owens dimostra di essere irresistibile e di meritare l’impegnativo paragone. Ma la vespa non lo abbandona: «Mi ronzava ancora intorno alla faccia, così ho alzato le braccia al cielo non solo per festeggiare ma anche per liberarmi di lei. Era l’insetto più veloce del mondo».
Quando si dice che «i cento metri sono un giudizio universale in meno di dieci secondi», si intende anche questo. Nello sport niente è avulso dal contesto, neppure il molesto imenottero. E la sospensione dell’esistenza di quell’attimo prolungato diventa la metafora di una vita in balia del destino. L’aneddoto (uno fra mille) impreziosisce un libro speciale, I cento metri, sottotitolo Storie, leggende e protagonisti di 100 sprint da ricordare, Diarkos editore. È scritto da due fuoriclasse del giornalismo sportivo come Claudio Colombo e Fabio Monti che hanno il pregio ulteriore di avere vissuto alcune di quelle imprese dal vivo, quindi sono in grado di raccontare (in 448 pagine) i 127 anni di storia non solo dell’atletica supersonica, ma della nostra società in movimento.
La sfilata dei volti è completa, qui della gara immortale non si dimentica nulla, neanche gli albori. C’è Thomas Burke, marcantonio di Boston in canotta e mutandoni bianchi, primo oro olimpico della specialità (Atene 1896). C’è Harold Abrahams, reso celebre dal film Momenti di gloria mentre si allena con i compagni di squadra sulla spiaggia scozzese di Saint Andrews al ritmo della colonna sonora di Vangelis. C’è Jesse Owens che ai giochi di Berlino del 1936 vince lo sprint in faccia alle teorie ariane e secondo la leggenda fa infuriare Hitler che si rifiuta di stringergli la mano. Poiché sulle fake news del passato c’è anche meno protezione che su quelle del presente, vale la pena attenersi al rigore filologico degli autori. «Ci sono varie versioni su ciò che accadde subito dopo. Certo è invece che il presidente degli Stati Uniti, Franklin Delano Roosevelt, non invitò mai alla Casa Bianca l’atleta che più di ogni altro fu il simbolo americano in quei Giochi».
La velocità è la maschera per nascondere la propria angoscia, ammoniva Friedrich Nietzsche. Misantropie ottocentesche. In realtà la velocità è un formidabile ascensore sociale per la gazzella nera Wilma Rudolph, ventesima figlia (su 22) di una poverissima famiglia del Tennessee, che da bambina ha avuto la poliomielite e diventa esempio di riscatto alle Olimpiadi di Roma. «Ho cominciato a scattare da piccola. Quando era pronto il pranzo la mamma suonava il triangolo e chi non arrivava per tempo non mangiava». La velocità è un dono misterioso per Armin Hary, sprinter tedesco – primo velocista al mondo a correre in 10” netti – che negli anni 60 riesce ad anticipare le partenze con tempi infinitesimali di reazione allo sparo (oggi diremmo, senza evidenza scientifica).
La velocità è infine un regolatore del carattere per Pietro Mennea, che da ragazzo sfidò in accelerazione sui 50 metri una Porsche in una strada di Barletta e da adulto conquistò il mondo con il dito alzato. Correva a 40 all’ora, lo chiamavano la Freccia del Sud, oggi dà il suo nome a un Frecciarossa. Diceva Carlo Vittori, suo maestro scomodo: «Pietro era una forza della natura ma anche il peggior nemico di sé stesso perché non si amava».
I cento metri sono la sintesi dell’uomo, con i suoi eroismi e le sue bassezze; nella gara più crudele il primo prende tutto e gli altri neanche se ne accorgono. Accade che fenomeni conclamati come Ben Johnson e Marion Jones provino a truffare il mondo barando con le provette; che Florence Griffith e le sue unghie da condor conquistino le vette della moda body-kitsch prima dei record in pista; che il messia Usain Bolt (detentore del record del mondo con il lunare 9”58) continui ad allungare l’ombra su finali e primati anche se non gareggia più. Così da far dire al presidente della Federazione mondiale, Sebastian Coe: «È stato come Muhammad Alì ma ora bisogna smetterla di rimpiangerlo». Poiché la metafora sociale affonda le radici nel riflesso condizionato più classico, laggiù sulla pista a otto corsie accade che il micidiale Tyson Gay – robocop ultraterreno nell’era dell’alta tecnologia – ringrazi come un tenero Giacomo la mamma. «Appena sono iniziate le batterie» dice dopo aver stracciato tutti ai mondiali di Tokyo 2007, «sentivo crescere il nervosismo. Allora ho chiamato mia madre, che mi ha rassicurato. E quando sono andato sui blocchi ho cercato di ricordare le sue parole: Uno solo vincerà, e sarai tu». Profetica.
Come nella vita, in quel mondo di mezzo con il pavimento di tartan esistono anche le partenze false. Omerica quella del locomotore inglese Linford Christie ai giochi di Atlanta (1996) descritta nel libro. «Il giudice capo gli ha appena mostrato il cartellino rosso: squalificato per doppia falsa partenza. Lui con ci sta, lamenta una fiscalità sospetta nei suoi confronti ma il giudice è irremovibile (…). Il pubblico rumoreggia e Christie si deve rassegnare: è fuori, non potrà difendere l’oro conquistato quattro anni prima». Frustrazione e beffa paragonabili a quelle di Eddie Hart e Rey Robinson, favoriti alle Olimpiadi di Monaco (1972) ma convinti che le batterie fossero in un altro orario. Mentre i rivali correvano, loro dormivano.
Nei 127 anni di corsa c’è tanta Italia. Oltre a nomi monumentali come il divino Mennea e il professor Livio Berruti, ecco Orazio Mariani, Franco Leccese, Giuseppina Leone, Sergio Ottolina, Ennio Preatoni, Pierfrancesco Pavoni, Stefano Tilli, Manuela Levorato, Filippo Tortu. Fino a Marcell Jacobs, che oggi si innalza a numero uno dello sprint planetario con l’oro olimpico di Tokyo appeso al collo. Mai nessun italiano come lui, al quale il fenomeno texano Fred Kerley, vincitore degli ultimi mondiali, ha già mandato un eloquente whatsapp: «Voglio soltanto un uno-contro-uno con te. Corriamo dove vuoi, ma corriamo». Guai a stare fermi.
Facile dirlo oggi, meno nel 1946 quando – con il continente in macerie – la squadra azzurra partecipa agli Europei di Oslo. Diciotto atleti e un solo inviato, Gianni Brera per la Gazzetta dello Sport. Il viaggio in quadrimotore dovrebbe durare 10 ore ma, fra tempeste e disguidi, per arrivare in Norvegia ci vogliono tre giorni. Nonostante le contrarietà, le deviazioni e le attese sfinenti, Carlo Monti corre cento metri eroici e vince il bronzo. È il primo podio di un’Italia che rialza la testa dopo l’immane tragedia bellica. Nel raccontare l’impresa le parole di Fabio hanno il dolce effetto di una carezza. Era suo padre.
