Parlare di tregua e concessioni non deve essere un tabù. O per lo meno non lo è sui giornali stranieri, dove il tifo è messo da parte per lasciare posto alle riflessioni.
Anni fa, quando cominciai questo mestiere, ho avuto un direttore che amava gli articoli senza fronzoli. Per lui, che era stato corrispondente di diverse agenzie di stampa, un buon testo non doveva contenere troppi aggettivi e soprattutto doveva essere privo di «colore», cioè di frasi che trasmettono sensazioni, ma non notizie. «Non dovete sembrare Hemingway» non si stancava di ripetere, «ma solo bravi cronisti». Non so perché, ma l’insegnamento mi torna spesso in mente di questi tempi, a proposito dell’informazione sulla guerra in Ucraina. Sui giornali italiani, mi capita spesso di leggere lunghi articoli scritti nelle retrovie a due passi dal fronte. Si tratta di reportage sulla vita in trincea, oppure di testi in cui si riportano le condizioni di vita nelle città sotto il fuoco russo.
Di analisi su ciò che sta accadendo, praticamente nulla. Al massimo, ci è concessa qualche intervista a professori o militari, i quali però quasi mai hanno punti di vista precisi su ciò che sta accadendo. Risultato, a sfogliare i nostri quotidiani non si capisce niente della piega che ha preso il conflitto. Se avessimo dato retta a certi commentatori, la Russia avrebbe dovuto essere già crollata da un pezzo, perché le sanzioni occidentali varate dopo l’invasione di un anno fa avrebbero fatto precipitare la sua economia, costringendola alla resa. Non conto il numero di volte in cui Vladimir Putin è stato dato per morto o per malato terminale o isolato dai suoi, al punto da accreditare l’idea di un golpe.
Ho descritto lo stato dell’arte, o meglio il «colore» della nostra stampa, per condividere la frustrazione di non riuscire a capire quale direzione abbia preso la guerra. Per i nostri giornali esistono solo le visite di Volodymyr Zelensky e i «Leopard» concessi dalla Germania, o i nuovi carri armati in arrivo dagli Stati Uniti. Ma dietro le quinte delle dichiarazioni ufficiali, che cosa succede? L’Ucraina può davvero vincere e la Russia essere sconfitta? Che cosa c’è di vero nelle minacce di un conflitto più ampio che perfino il segretario generale dell’Onu, António Guterres ha rilanciato? E una tregua, è davvero possibile o è totalmente da escludere?
A questo proposito, sui quotidiani internazionali si trova meno colore, ma più sostanza. Nel senso che le analisi della stampa straniera non vertono sulle interviste rilasciate da un generale in pensione che guarda la guerra dal suo salotto di casa. Né si limitano a interrogare un esule russo che riversa nell’intervista più le sue aspettative che la realtà. No, quasi sempre gli articoli prendono spunto da informazioni riservate delle agenzie di intelligence oppure da fonti diplomatiche che hanno in mano i dossier sulle possibili opzioni di risoluzione del conflitto. Ecco, sui giornali internazionali si trova la sostanza senza fronzoli e i commentatori non provano alcun imbarazzo a parlare di trattativa e di tregua, argomenti che in Italia sono guardati con sospetto, quasi che a pronunciare quelle parole si rischi di venire iscritti d’ordinanza alla lista dei filo-Putin. No, mentre da noi si discute dell’efficacia degli ultimi sistemi d’armamento, sulle pagine del Washington Post o del New York Times si parla di quali concessioni fare alla Russia per evitare un’escalation. Altro che attacco alla Crimea, che equivarrebbe a un’estensione del conflitto. La penisola è considerata merce di scambio, al pari di alcune aree delle province confinanti, territori che Mosca rivendica come suoi. Addirittura, qualcuno scrive che un quinto dell’Ucraina potrebbe essere ceduto agli occupanti in cambio del cessate il fuoco e di un accordo che consenta a Kiev di entrare a far parte dell’Unione europea.
Ecco, a leggere articoli che non hanno il «colore» del conflitto, ma solo il grigio della realtà, si capisce che dietro i proclami ufficiali, dietro alla retorica bellica e alle dichiarazioni di principio, c’è la situazione reale e ci sono gli interessi delle forze in campo. La guerra ha già provocato decine di migliaia di vittime e centinaia di miliardi di danni. Le economie europee sono sfiancate e anche se l’inverno mite ci ha risparmiato il razionamento del riscaldamento e i black-out, la situazione dopo l’embargo dei prodotti petroliferi russi rimane complicata. L’Occidente non è attrezzato per un conflitto lungo e non solo perché ha esaurito le scorte di armamenti, ma soprattutto perché si va esaurendo la pazienza dell’opinione pubblica, sempre meno disposta a fare sacrifici in difesa di un Paese che conosce poco. Il sogno di un conflitto lampo coltivato da Putin, ma anche da Europa e America, non c’è stato e oggi gli eserciti si fronteggiano senza che nessuno riesca a prevalere, in una guerra che ricorda quella del ’15-’18 ma con armamenti più micidiali.
Dunque, parlare di tregua e concessioni non è più un tabù. O per lo meno non lo è sui giornali stranieri, dove il tifo è messo da parte per lasciare posto alle riflessioni. Non si tratta di stare dalla parte degli ucraini, ma di quella del buon senso o se volete della «realpolitik». E oggi la concretezza del Pentagono o della Casa Bianca sembra aver già deciso per la trattativa. Del resto, invadere la Russia entrando nel conflitto non pare essere un’opzione sul tavolo, a meno di mettere anche quella di un conflitto nucleare. Dunque, non resta che la tregua, una pace armata con un’Ucraina privata di una parte del proprio territorio e un Cremlino indebolito da un conflitto che lo ha dissanguato. Certo, questo non è il lieto fine che consentirebbe di scrivere articoli di colore sulla vittoria dei buoni e la sconfitta dei cattivi, ma è purtroppo la realtà con cui potremmo essere costretti a fare i conti, anche se alla stampa italiana, piena di fronzoli, non piace parlarne.
