Sta sorgendo un altro Istituto per la Ricostruzione Industriale. E a far da levatrice sono gli eredi di una stagione delle Partecipazioni statali che all’Italia portò solo guai.
Sono passati più di 20 anni da quando, dopo oltre mezzo secolo di repubblica a guida centrista, un post-comunista riuscì a diventare presidente del Consiglio. Massimo D’Alema, per approdare a Palazzo Chigi, fu costretto a nascondersi dietro il volto pacioccone di Romano Prodi, il boiardo a cui la Dc aveva affidato la liquidazione dell’Iri, ma dopo qualche mese – forse stanco di aspettare – ne prese il posto.
La stagione dei Lothar, dal soprannome affibbiato ai collaboratori dell’ex segretario del Pds, quasi tutti calvi proprio come l’assistente di Mandrake, fu caratterizzata da un interventismo in politica economica che Guido Rossi liquidò con una battuta: il governo è l’unica merchant bank in cui non si parli inglese. Di certo, le mosse non furono quelle che ci si sarebbe aspettati da un esecutivo di sinistra, prova ne sia che Claudio Rinaldi, all’epoca direttore dell’Espresso, dedicò al gruppetto un libro dal titolo inequivoco: I sinistrati. D’Alema concluse il ciclo delle privatizzazioni avviate da Prodi, il quale dopo aver ceduto per pochi soldi l’Alfa Romeo alla Fiat, passato l’Ilva ai Riva e venduto le banche d’interesse nazionale ad alcuni gruppi industriali, rimase con in mano le telecomunicazioni e le concessioni autostradali.
A completare l’opera di dismissioni ci pensò appunto D’Alema, che nel ’99 si liberò di Autostrade e subito dopo di Telecom, con un’operazione che fece entrare i Benetton nella prima e gli Agnelli nella seconda. Di quel periodo di privatizzazioni rimane il severo giudizio della Corte dei conti, arrivato ahinoi un decennio dopo: «Si evidenzia una serie di importanti criticità, le quali vanno dall’elevato livello dei costi sostenuti e dal loro incerto monitoraggio, alla scarsa trasparenza connaturata ad alcune delle procedure utilizzate (…), al non sempre immediato impiego dei proventi nella riduzione del debito». I
nsomma, lo Stato vendette l’argenteria di casa con procedure opache e i soldi ricavati non furono usati, come sarebbe stato logico, per ridurre il debito pubblico, che all’epoca era già assai elevato, ma spesso per fare altra spesa pubblica. Risultato, a distanza di oltre 20 anni, lo Stato prova a riprendersi a caro prezzo quello che aveva ceduto. I protagonisti in apparenza sono diversi, perché a Palazzo Chigi c’è Giuseppe Conte e non Prodi o D’Alema, ma l’apparenza inganna. Non solo perché Roberto Gualtieri, ministro dell’Economia, è assai vicino proprio al «lider Maximo», ma perché attorno al governo ruotano una serie di personaggi che possono essere ricondotti proprio a quell’epoca.
Mi viene in mente la frase di un dirigente che, alla nascita del Conte bis, conoscendo bene molti dei nuovi ministri per aver frequentato la scuola comunista delle Frattocchie, liquidò il nuovo governo con un giudizio lapidario: «Questi sono stalinisti». E in effetti le misure adottate finora hanno tutte la stessa impronta, al punto che si può dire senza paura di essere smentiti che l’esecutivo guidato dall’ex avvocato del popolo è il più a sinistra della storia repubblicana.
E non solo per un certo piglio decisionista assunto nei mesi del lockdown da Giuseppe Conte, che lo ha fatto apparire una specie di «grande timoniere» (la doppia standing ovation al Senato, dopo l’accordo nel consiglio europeo, ricorda certe scene bulgare), in grado di governare con i Dpcm senza l’ausilio del Parlamento, ma perché le scelte in politica economica vanno in quella direzione, ovvero verso un ritorno allo Stato imprenditore che tanto piace al segretario della Cgil Maurizio Landini.
Non c’è solo Autostrade, che il governo ha deciso di ricomprarsi e che rischia di costare cara ai contribuenti perché, oltre ad assumersi i nove miliardi di debiti dell’azienda di proprietà dei Benetton, lo Stato si farà carico anche di 14,5 miliardi di investimenti. Ci sono anche Alitalia e Ilva, proprio quelle aziende che un ventennio fa furono rimesse sul mercato. La prima è un buco nero che ha già inghiottito il denaro dei capitani coraggiosi e anche di Etihad, il partner arabo trovato da Matteo Renzi con una complessa operazione, con il famoso Air force presidenziale noleggiato a caro prezzo. La seconda è un caso industriale e giudiziario che può trasformarsi in un salasso per le casse dello Stato. E poi c’è la rete telefonica, che si vuole scorporare da Tim per unirla a Open Faber. Sempre con soldi pubblici.
Sì, 20 anni dopo la stagione delle privatizzazioni che ha visto regalare importanti asset a gruppi industriali e speculatori, lo Stato ritorna sui suoi passi, ricomprando ciò che ha venduto. Non è finita. Nei giorni scorsi, nelle pagine di cronaca di alcuni quotidiani, si dava conto del salvataggio della Corneliani, una media impresa nel settore dell’abbigliamento. Per evitarne il fallimento, lo Stato investirà 10 milioni. Poca cosa, certo, rispetto ai miliardi di Autostrade, Alitalia, Ilva e rete telefonica, che da sole si mangeranno i soldi che l’Europa ci dovrebbe dare.
Tuttavia, i 10 milioni di Corneliani non sono che l’antipasto, perché da quel che si apprende il governo, tramite Cassa depositi e prestiti, ha intenzione di investire fino a 44 miliardi nel capitale di imprese che versano in uno stato di difficoltà economico-finanziaria. In pratica, sta nascendo una nuova Iri e a far da levatrice sono gli eredi di una stagione delle Partecipazioni statali che all’Italia portò solo guai, oltre che debiti. Sì, il grande timoniere sta pilotando il Paese verso un ritorno al passato. La lunga marcia è appena cominciata.
