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Jago, scultore di meraviglie nel mondo globale

Jago, scultore di meraviglie nel mondo globale

Tra forte simbolismo e confronto con i grandi esempi dell’arte, questo giovane autore traccia la sua poetica nel marmo. Che si misura con le figure, i drammi e le speranze della contemporaneità. Senza aver paura di nascondere il lato «perturbante» della vita.


È per me una ragione d’orgoglio aver premiato Jago poco più che ventenne, e poi presentato alla Biennale di Venezia nel 2011 su segnalazione della «veggente» Maria Teresa Benedetti. Se tutto ciò che è venuto dopo è stato possibile è perché Jago non ha inteso subire gli eventi che lo hanno interessato, ma ha voluto essere lui un fenomeno che si doveva conoscere e di cui bisognava parlare, anche da chi non è aduso a sapere e discutere di arte.

Si è fatto forte, Jago, della scaltrezza e della determinazione di chi ha capito precocemente che nell’epoca della civiltà non sempre civile del web e dei social sarebbe insufficiente essere lo scultore più capace della terra per guadagnarsi automaticamente il centro del palcoscenico; ci vuole anche altro, e questo altro occorre inventarselo con la stessa concentrazione, la stessa meticolosità, la stessa verve creativa che si riserverebbe, e si riserva, a un’opera scultorea di grande impegno.

Scaltrezza e determinazione che possono essere colte in trasparenza fin dagli aspetti preliminari del porsi di Jago davanti a noi; nella temerarietà, per esempio, con cui Jacopo Cardillo da Frosinone ha ripudiato in arte il nome anagrafico per adottare quello archetipico del più perverso fra i personaggi shakespeariani, la personificazione del male fine a se stesso, come effetto di un’avveduta strategia personale. Non è cinico Jago, né un arido calcolatore, ma hai ugualmente l’impressione che riesca a mantenere sempre il polso delle situazioni in cui si trova.

Nessuno potrebbe lecitamente sospettare che Jago si sia fatto stratega per mascherare carenze di base, un po’ come capita con certi cantanti che strillano e si acconciano in modo eccentrico per farci dimenticare che non sanno cantare. Jago «canta» scultura in modo formidabile, ed è davvero improbo tenergli il passo da un punto di vista strettamente tecnico-artigianale. Si è formato trovando in se stesso quell’accademia che l’istituzione non riusciva a fornirgli fino in fondo, perseguendo come motivo pressante della sua ispirazione l’ineludibilità del confronto con l’antico, con il mestiere dello scolpire così come codificato dal Rinascimento fino al secolo scorso, con l’idea della centralità dell’uomo e della nobiltà della sua forma che un tale magistero intellettualmente sostiene.

Ben presto, però, Jago si convince che non basta ammirare per imparare. Bisogna farlo, a un certo punto, per sfidare, come facevano i grandi maestri che non volevano solo emulare gli antichi, ma volevano superarli, facendo scaturire da questo intento la modernità nel suo valore più autentico. Modernità che in tempi più recenti ha avuto altre manifestazioni su cui dovrebbe comunque fondarsi il patrimonio dell’artista contemporaneo, capaci di spostare il baricentro dell’espressione artistica dall’opera in senso stretto, chiusa entro determinate caratteristiche fisiche, all’orizzonte allargato dell’operazione – la concettualizzazione, la performance, l’happening, la diversificazione logistica e mediatica – che la contiene o anche la oltrepassa, quando non la ritiene più necessaria. Arte è comunicare arte.

Così, accanto a uno Jago più libero da rimandi nei confronti di altro da se stesso, tendenzialmente simbolista, nella forma più sensibile alla levigata politezza delle superfici, si sviluppa quello diventato più noto, lo scultore titanico che vuole vincere il tempo stabilendo una perfetta equazione fra passato e presente, tendenzialmente realista. Prendiamo, come per una sfida, un famoso capolavoro del passato: il Cristo velato di Giuseppe Sammartino nella Cappella Sansevero a Napoli, che sviluppava fino alle estreme conseguenze un espediente tecnico-espressivo inventato dal veneto Antonio Corradini, la resa delle forme umane intraviste attraverso un velo aderente. Virtuosismo puro, quello di Sammartino, così sovrumano da far immaginare che il velo non fosse stato scolpito nel marmo, altrimenti si sarebbe spezzato per forza, ma ottenuto attraverso un bagno chimico pietrificante.

Non avrei dubbi sul fatto che proprio questo sia stato il motivo di maggiore attrazione avvertito da Jago: quel Cristo non incarna se stesso come Dio fattosi uomo, ma in quanto opera d’arte. E lì il prodigio, lo spettacolo della metamorfosi resa permanente – è il tema centrale affrontato da Sammartino, il corpo che si fa spirito allo stesso modo di come la materia si fa arte – ancora in grado di lasciare meravigliati a due secoli e mezzo dal suo allestimento. Il Cavalier Marino affermava: «E del poeta il fin la meraviglia / (parlo dell’eccellente, e non del goffo), / chi non sa far stupir vada alla griglia».

Se si è veri scultori, bisogna sapere fare altrettanto. Ma non facendo un altro Cristo, sarebbe banale, inutile, puro divertissement personale. E senza limitarsi a fare solo una scultura, ci vuole – eccola la modernità che irrompe sulla semplice continuità con l’antico, modificandone il significato – l’operazione attorno, mediatica innanzitutto, ma non solo, anche ideologica, concettuale, sociale, in modo tale da fare di tutto ciò che accompagna e segue la creazione un evento partecipato a misura delle persone dei nostri giorni, quelle che comunicano, più o meno ossessivamente, online. Si cambia innanzitutto il soggetto apparente (quello vero è l’arte, s’intende), non un adulto ma un bambino, uno dei diversi trattati da Jago in modi che non si sono certo proposti di passare sotto silenzio. Si comincia a New York perché in Italia non si riesce, e già questo accende l’attenzione.

Si carica, Jago, si sente al centro di un’impresa che in molti avrebbero giudicato impossibile da replicare o troppo megalomane, si sforza di trasmettere il senso di quanto sta azzardando a un uditorio virtuale che ha modo di seguirlo al lavoro dallo smartphone o dal computer di casa propria, per ottenerne in cambio approvazione, incoraggiamento, consenso, da parte dei giovani soprattutto, come se lo scultore fosse un rapper che si rivolge proprio a loro. Finalmente l’opera è pronta, l’operazione, invece, ancora deve avere seguiti importanti, finendo anche per prevalere sulla scultura vera e propria.

Scultura che, nel confrontarsi col capolavoro di Sammartino, lo interpreta per volerne fornire una versione al passo con i tempi, riducendo al minimo l’incidenza del corpo umano , per lasciare il ruolo del protagonista al più artistico degli elementi, un velo qui caratterizzato da panneggi per nulla morbidi e acquosi come nel Cristo, ma angolari e metallici come in precedenti niente affatto intuibili in Sammartino.

Nello scolpire a misura di mondo globale, insomma, Jago sembra rinunciare all’italianità in senso stretto, preferendo un respiro più internazionale che allude anche a culture artistiche diverse, non certo meno notevoli della nostra. L’operazione, intanto, va avanti. Potrebbe essere venduto, il Figlio velato: gli aspiranti acquirenti non mancherebbero.

A non volere finire subito nelle mani di un unico compratore, potrebbe essere concepito come l’equivalente di un fondo di investimento in cui un numero quanto mai ampio di acquirenti comprasse una quota di partecipazione, così come Jago, da uomo perfettamente calato nell’epoca dell’arte come nuova forma di finanza – in fondo è la novità più rilevante nel corso dell’ultimo quarantennio – che non si fa scrupolo a parlare apertamente di denaro quando c’è di mezzo il suo lavoro (del neonato gigante in piazza Plebiscito ha detto: «Ho lasciato per terra un milione di euro»), ha già pensato in altre situazioni.

Ma in questo caso l’operazione segue un altro corso, meno venale: il Figlio velato accompagna il ritorno di Jago in Italia, a Napoli, dove decide di vivere e lavorare nel quartiere popolare di Sanità, di cui è diventato subito un emblema. La statua viene collocata, spettacolarmente, al centro della Cappella dei Bianchi nella chiesa di San Severo fuori le mura, a diventare una seconda Cappella Sansevero. È eletta a simbolo di una resurrezione cercata, quella di un intero quartiere e della sua gente: il Figlio finirà per vincere la morte in cui ora è ancora immerso. Il fine è raggiunto, la consacrazione avvenuta, il consenso ottenuto, il senso di comunità con i napoletani stabilito: Jago può davvero considerarsi il nuovo Sammartino.

E adesso, afferma, concedendo forse troppo alla retorica, ma con convinzione sincera, l’opera non è più solo mia, è di tutti quelli che hanno partecipato anche solo emotivamente alla vicenda e si sono fatti coinvolgere nella sua narrazione trovandone una forma di godimento anche minima. Perché l’arte, da sola, non può più esistere, per quanto grande possa essere. Esiste la vita, e l’arte nella vita.

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