Durante la Seconda guerra mondiale l’oasi nel deserto libico era l’avamposto del nostro esercito che affrontò le truppe inglesi e australiane, meglio armate e organizzate. Ottant’anni fa 1.300 uomini guidati dal maggiore Salvatore Castagna difesero quel lembo perduto di sabbie e morirono valorosamente di fame e sete. Un episodio di eroismo raccontato da un film nel 1942, ma che oggi è stato quasi dimenticato.
«Colonnello, non voglio pane / dammi il piombo del mio moschetto». Nell’ultima settimana ciascuno si arrangiò con una galletta e mezza al giorno. «Ho la terra nel mio sacchetto / e, per oggi, mi basterà…». Per sei ore, prima di arrendersi, riuscirono soltanto a leccare il collo della borraccia per sentire il sapore dell’umido perché, dentro, non c’era rimasta nemmeno una goccia.
«Colonnello, non voglio acqua / dammi il fuoco distruggitore».
L’ufficiale cui fanno riferimento le rime di Alberto Simeoni (per la musica di Mario Ruccione) si chiamava Salvatore Castagna e, anche se destinato a indossare i gradi del generale di divisione, in quel momento, era soltanto un maggiore. Con i suoi 1.300 uomini, accerchiato nell’oasi di Giarabub, resistette oltre ogni previsione e oltre ogni sacrificio. Il 21 marzo 1941, dopo quattro mesi, fu costretto a pronunciare l’ordine di alzare bandiera bianca ma pretese che i nemici concedessero l’onore delle armi.
Una sconfitta da celebrare come fosse stata una vittoria. Non un episodio isolato nell’almanacco dello squinternato esercito italiano che, sui campi di battaglia, ha potuto vantare successi di scarso rilievo. Ma, spesso, l’eroismo oltre misura di pochi ha consentito di trasformare la delusione in orgoglio. La resistenza epica a Giarabub fu trasformata immediatamente in una pellicola cinematografica. L’8 maggio 1942, ancora in piena guerra, la Scalera film presentò la «prima». Il regista era Goffredo Alessandrini e Renzo Rossellini firmò la colonna sonora. Carlo Ninchi e Doris Duranti impersonarono i protagonisti della vicenda.
Nel copione originale era prevista una seconda presenza femminile – quella di «Olga» – affidata a Diana Torrieri che, però, in fase di montaggio, venne cancellata. Per le dinamiche belliche, la vicenda in sé non aveva significati né tattici né strategici. Giarabub era un chilometro quadrato di sabbia, in mezzo a centinaia di chilometri di sabbia del deserto libico. Quando esplose la Seconda guerra mondiale, apparve immediatamente chiaro che i reparti tricolore avrebbero potuto recitare soltanto un ruolo da comprimari.
L’Italia entrò in guerra nel 1940, quando i tedeschi già combattevano da un anno spianando qualunque ostacolo si opponesse loro. Le divisioni italiane rimediarono una figura ridicola nel tentativo di invadere la Francia dal Sud e, di fatto, le operazioni in Europa si fermarono pochi chilometri dopo la frontiera, senza riuscire nemmeno ad arrivare a Marsiglia. L’Italia avrebbe potuto riscuotere qualche successo in Africa settentrionale, non tanto per la sua forza d’urto quanto per l’assenza di nemici di qualche peso. La Gran Bretagna che era potenza egemone nelle regioni orientali, aveva le sue difficoltà in casa e, altro che difendere i confini coloniali, impegnava ogni risorsa per contenere la furia degli uomini di Hitler.
In Africa, a Occidente, il crollo della Francia lasciò senza difese gli stati della Tunisia, Marocco e Algeria. La V armata del generale Italo Garibaldi si trovò senza avversari e avrebbe potuto muoversi rapidamente senza incontrare difficoltà. Si trattava di avanzare e occupare posizioni lasciate praticamente indifese. Il vero ostacolo era rappresentato dalle distanze che, nel deserto, risultavano ancor più disagevoli. Come coprire centinaia di chilometri sulla sabbia senza autocarri?
Lo Stato Maggiore ritenne di risolvere la questione utilizzando «piccole salmerie di asinelli locali». Ma, in quel modo, il problema si aggravò. Gli animali non necessitavano di benzina ma dovevano essere foraggiati e non potevano fare a meno dell’acqua. Di conseguenza – parola del generale Mario Roatta – «anche questo arcaico palliativo venne abbandonato». Lasciando i reparti immobili, tra le dune.
Gli italiani registrarono qualche successo territoriale sulla direttrice che portava ad Alessandria d’Egitto ma, ai fini della soluzione del conflitto, non ne derivarono vantaggi significativi. E quando gli alleati furono in grado di riprendere l’iniziativa, l’esercito italiano si rivelò per quello che era: impreparato alla difesa e incapace di rispondere agli attacchi. Restò l’abnegazione dei soldati (per la maggior parte coscritti di leva) che non erano guerrieri ma conoscevano il senso dell’onore.
La Gran Bretagna, l’8 dicembre 1940, lanciò una puntata offensiva che venne battezzata «Operazione Compass». Doveva trattarsi di una specie di «assaggio» militare ma l’inconsistenza delle truppe tricolore la trasformò in una manovra di più ampio respiro. Sembrava che si affrontassero eserciti di due epoche differenti. Gli inglesi si muovevano sui carri «Matilda» che erano dei bestioni di 27 tonnellate. Gli italiani avevano a disposizione le armi della guerra precedente. I mezzi di quella che avrebbe dovuto essere l’artiglieria pesante avevano la dimensione di un’utilitaria, capace di sparare dei colpi che fisicamente rimbalzavano sulla doppia corazzata delle autoblindo nemiche.
Di camion per trasportare le truppe non ce n’erano. La ritirata, fra le dune del deserto, avvenne a piedi, con scarponi che si scioglievano per il caldo della sabbia, abbigliamento inadeguato e viveri insufficienti. Il ripiegamento diventò rotta e la rotta si trasformò in fuga, con poca disciplina e nessun rispetto gerarchico. Ognuno con la forza e la velocità che gli era consentita, formando un serpentone che si muoveva a singhiozzo. Tutti con l’affanno di guadagnare un luogo più sicuro per evitare un combattimento perso in partenza o la cattura che avrebbe significato il campo di prigionia chissà dove. Tutti indietro, alla rinfusa, a eccezione di quelli che, per caparbietà, scelsero di restare al loro posto, affrontando l’onda d’urto dei nemici.
Giarabub era l’avamposto più meridionale dei territori occupati dagli italiani: 320 chilometri a sud di Bardia e 32 dal confine egiziano. La difesa era assicurata da 1.300 soldati regolari cui andavano aggiunti circa 800 libici, inquadrati in quattro compagnie. Proprio loro, alle prime avvisaglie, cominciarono a disertare al punto che il comandante Castagna, per evitare contraccolpi psicologici e al fine di farsi consegnare le armi, lì mandò in regolare congedo.
Restarono gli italiani. In quel settore gli inglesi avevano disposto truppe di soldati australiani al comando del generale George Wotten. In pochi giorni il presidio di Giarabub, persi contatti e collegamenti con i reparti in linea, si trovò circondato dai nemici. I quali bombardarono le postazioni compresa la pista utilizzata dagli aeroplani. Veniva meno la possibilità di essere riforniti di armi e, soprattutto, di cibo. Gli australiani tentarono ripetutamente di forzare le difese ma, ogni volta, incontrarono una reazione tale da sconsigliarli di insistere. Di fatto non ebbero mai forze sufficienti per un attacco diretto. E poi perché affrontare i rischi di un combattimento guerreggiato se – come negli assedi medievali – potevano prenderli per fame?
Le derrate alimentari vennero razionate: prima metà, poi metà della metà e, alla fine, i pochi bocconi che restavano. «È doloroso» telegrafò Castagna «che dopo tanti sacrifici ci si debba arrendere per fame». Il 27 febbraio (1941) un aereo riuscì a lanciare qualche cassa con una certa quantità di gallette e carne in scatola. Nello stesso giorno, anche gli aeroplani inglesi volarono sopra il presidio e lanciarono volantini. «Difensori di Giarabub, i vostri capi probabilmente non vi hanno detto che abbiamo occupato l’intera Cirenaica. Le nostre truppe marciano su Tripoli. Ogni vostro sacrificio è inutile».
I soldati italiani lo sapevano ma non mollarono. Leccarono il fondo delle scatolette di carne. Centellinarono le gocce d’acqua. Non si risparmiarono turni di guardia per essere pronti a rispondere ai nemici. Il 20 marzo le truppe australiane riuscirono a occupare la «vecchia ridotta» – praticamente già dentro il presidio italiano – dove vennero piazzati 81 mortai capaci di radere al suolo l’accampamento. Castagna ordinò un ultimo disperato contrassalto. Lui stesso si mise alla guida dei suoi. Venne ferito alla testa da una granata. Con lui rimase a terra il suo portaordini Orazio Barbagallo, che aveva cercato di proteggerlo facendogli scudo con il suo corpo. «Colonnello… con il sangue di questo cuore / la mia sete si placherà».
