Pur comprendendo le ragioni di chi dice di battersi per la propria terra, non potrò mai accettare che la lotta per la conquista di una patria sia fatta trucidando uomini, donne e bambini che dormono pacifici nel proprio letto
La prima volta che ho visitato Israele, su Tel Aviv cadevano gli Scud di Saddam Hussein. Le bombe scavavano larghi crateri lungo le strade alberate e gli israeliani facevano incetta di maschere antigas, temendo che sui missili lanciati dall’Iraq fossero montate le armi chimiche. Io ero inviato al seguito di un gruppo di ebrei italiani che, insieme all’allora sindaco di Milano, Paolo Pillitteri, intendeva manifestare la propria solidarietà nei confronti di un Paese attaccato per ritorsione durante la prima guerra del Golfo. Di quel viaggio ho alcuni ricordi. Il primo è che della missione a Gerusalemme faceva parte anche un tipo che di lì a un anno sarebbe diventato famoso e avrebbe segnato un’epoca, ossia Mario Chiesa, l’uomo che intascando l’ennesima mazzetta diede il via a Mani pulite e alla caduta della prima Repubblica. Il presidente del Pat, Pio albergo Trivulzio, un’istituzione a Milano (l’ente, non lui), era già arrogante e sprezzante allora, e quando lo beccarono con il sorcio in bocca, anzi con le banconote che stava per gettare nel water, era all’apice della sua ascesa, politica e sociale.
Il secondo ricordo riguarda un’uscita per le vie della capitale ebraica che feci in compagnia di Gianluigi Da Rold, inviato del Corriere della Sera. Un pomeriggio sfuggimmo alla scorta armata che ci era stata messa a disposizione e che avrebbe dovuto proteggerci da eventuali aggressioni. Ci addentrammo nella città vecchia e mentre ci aggiravamo nei vicoli, resi spettrali dalla chiusura di tutti i negozi a causa della prima Intifada, fummo avvicinati da un tizio che ci propose di seguirlo. Con una certa dose di incoscienza ci facemmo guidare per altri vicoli fino a che, giunti in una casa dove c’erano alcune persone, ci venne proposto di comprare qualche oggetto. Sia il tizio che ci aveva chiamati, sia gli altri, erano negozianti, costretti a tirar giù la saracinesca pena una rappresaglia. I capi palestinesi avevano imposto a tutti la serrata (Hamas già imperversava) ma quella gente che ci chiedeva di comprare qualche cosa aveva un problema che la spingeva anche a rischiare la vita: dar da mangiare ai propri figli. Confesso che iniziai a guardare la protesta palestinese, quel gruppo di uomini, donne e ragazzi che si opponeva ai soldati di Israele, con altri occhi. Soprattutto dopo aver scoperto che tra i morti dell’Intifada non c’erano solo i giovani che lanciavano sassi contro l’esercito, ma anche coloro che si erano ribellati alle imposizioni e alle minacce delle milizie palestinesi, come una donna il cui cadavere era stato trovato ai bordi di una strada. Un gruppo di uomini armati, probabilmente appartenenti a uno dei tanti gruppi della resistenza, l’aveva prelevata una sera, trascinandola fuori casa. L’accusavano di essersi prostituita, probabilmente per sfamare la famiglia: la ritrovarono morta. Sì, si poteva finire trucidati con l’accusa di aver disobbedito agli ordini di chiudere il negozio o di aver fatto l’amore a pagamento, giustificando entrambi gli assassini con l’accusa di aver fatto la spia.
Ho anche altri ricordi di quel viaggio e uno di questi forse spiega perché sabato 7 ottobre gli israeliani si siano fatti sorprendere dai terroristi quasi senza reagire. Era un sabato anche il giorno in cui, al King David, l’hotel di Gerusalemme che un tempo era stato il quartier generale inglese, un tizio in giacca e cravatta mi chiese se potessi accompagnarlo in camera sua e spegnergli la luce. Confesso, lo ascoltai un po’ incredulo e poi, con il solito Da Rold, mi avviai verso l’ascensore, per salire in camera. Una volta raggiunta la stanza, premetti l’interruttore. Il tipo, che si rivelò essere un funzionario del ministero degli Esteri, collaboratore di colui che poi sarebbe divenuto ministro in uno dei governi di Benjamin Netanyahu, non la finiva di ringraziarmi e offrendomi il suo biglietto da visita mi invitò a chiamarlo senza esitazioni qualora ne avessi avuto bisogno. Lui, come molte delle vittime della strage di Hamas, rispettava lo shabbat, ossia il sabato ebraico, la festa del riposo che impone all’ebreo osservante di non fare niente, neanche accendere la luce. Non avevano di certo acceso la radio o il telefono gli uomini e le donne che i terroristi hanno assassinato a centinaia nei villaggi vicini alla striscia di Gaza.
Infine, ho un ultimo ricordo di quel viaggio di oltre trent’anni fa. All’aeroporto di Tel Aviv, mentre mi apprestavo a partire, arrivò un aereo dalla Russia. Non erano aiuti per Israele, erano decine e decine di ebrei russi che, nonostante le bombe di Saddam, avevano scelto di trasferirsi lì, per cominciare una nuova vita sotto la Stella di David. Mentre a Gerusalemme avevo visto con i miei occhi che dietro l’immagine di un popolo che resisteva c’era il rischio dell’ennesima dittatura islamica, sul piazzale dello scalo vedevo il sogno di gente che, dopo aver vissuto per anni sotto una dittatura comunista, cercava la democrazia.
Vi ho raccontato le mie impressioni dell’epoca per spiegarvi perché, pur comprendendo le buone ragioni di chi dice di battersi per la propria terra, non potrò mai accettare che la lotta per la conquista di una patria sia fatta trucidando uomini, donne e bambini che dormono pacifici nel proprio letto. La resistenza è un conto. Il terrorismo è un altro.
