Il 9 aprile 2003 le truppe americane entravano a Baghdad, spodestando Saddam Hussein. Ma innescando le forze anti-occidentali che hanno terrorizzato a lungo tutti noi.
Con un briciolo di presunzione, lasciarono intendere che gli «Stati canaglia» avevano perduto un tassello importante del loro puzzle. In realtà, quando la fanteria statunitense fece il suo ingresso in una Baghdad già indifesa (9 aprile 2003) pestarono un nido di vipere che, come intorpidite fino ad allora, presero vigore e cominciarono ad agitarsi.
L’atto che doveva rappresentare la vittoria della democrazia sulla tirannide si trasformò nel suo calvario. Perché, da quel momento, gli anti-americani, i nazionalisti, gli sconfitti e gli scontenti finirono per individuare nel terrorismo un riparo e una soluzione. Lì, trovarono una giustificazione politica e rafforzarono quell’Isis che, per dieci anni, tormentò l’occidente e le cellule jihadiste che seminarono di cadaveri le strade di Parigi e quelle di Berlino.
Con il fondamentalismo islamico, le democrazie occidentali devono ancora fare i conti. Non che l’Iraq di Saddam Hussein fosse un esempio di buon governo. Ma gli Stati Uniti, nonostante le brutalità periodicamente denunciate, avevano mantenuto rapporti sostanzialmente buoni. Il regime di Baghdad era utile perché non faceva mancare il petrolio alle loro imprese e, con un governo vagamente ispirato a un socialismo laico, rappresentava una barriera ai Paesi più marcatamente islamici, sempre inclini a diventare fondamentalisti. E infatti lo sostennero nel corso del conflitto contro l’Iran (1980-1988). Informazioni strategiche, consigli militari e forniture di armi. Che per gli Usa erano ferrivecchi ma, nel deserto arabo, potevano ancora rappresentare un vantaggio.
Il ruolo politico di frangiflutti e la forza economica costruita sul greggio dovettero convincere Saddam Hussein di essere diventato necessario e, quindi, inattaccabile. Per questo (2 agosto 1990, alle 2 di notte) le truppe irachene sfondarono le resistenze (in realtà, fragilissime) alla frontiera con il Kuwait e in quattro giorni occuparono tutto l’occupabile. Alla base del contenzioso c’erano 14 miliardi di dollari per un prestito che il Kuwait aveva assicurato all’Iraq e l’Iraq non era nelle condizioni di onorare. Piuttosto che la strada del negoziato, Saddam Hussein preferì la scorciatoia della forza militare.
Unanime la reazione del resto del mondo che intimò il ritiro delle truppe e, rimanendo l’ultimatum senza esito, si formò una coalizione che non fece fatica a ripristinare i vecchi confini politici e a riportare al governo l’emiro Jabir III (15 marzo 1991). Non si riannodarono i fili della diplomazia fra gli Usa e Saddam Hussein che, da quel momento, pur depotenziato e strangolato dalle sanzioni economiche, fu considerato inaffidabile (per un verso) e pericoloso (per l’altro). Al punto da progettare un’azione militare per toglierlo di mezzo. La propaganda americana iniziò a battere la grancassa. L’intelligence sostenne che i laboratori iracheni fossero sul punto di produrre una bomba nucleare. Il rischio di lasciare un’arma dal potenziale immenso nelle mani di uno sconsiderato fu l’argomento principe e anche il più suggestivo.
Non era vero e gli Usa non riuscirono nemmeno ad apparire troppo convincenti. Se la condanna per l’invasione del Kuwait e l’intervento successivo risultarono unanimi, la nuova iniziativa contro l’Iraq conquistò l’adesione di solo 49 Stati che, con enfasi, furono definiti l’alleanza dei volonterosi: «Coalition of the Willing». Ma, se si esclude la presenza della Gran Bretagna del laburista Tony Blair, mancarono i paesi più importanti. Certo, c’erano l’Azerbaigian, l’Uzbekistan e l’Afghanistan ma non aderirono, per esempio, Francia e Germania.
Le accuse formulate dalla Casa Bianca (presidente George W. Bush) sembrarono modestamente motivate rispetto alle obiezioni di chi sosteneva che il conflitto aveva lo scopo d’impadronirsi dei pozzi petroliferi. Il tira-e-molla andò avanti mesi fino al mattino del 20 marzo 2003 quando – ufficialmente – cominciò la Seconda guerra contro l’Iraq. A conferma che si trattava di un affare degli Usa, l’esercito della sedicente coalizione era composto da 260 mila uomini che per l’89 per cento erano americani. I mille soldati della Corea del Sud o della Polonia non rappresentarono un contributo bellico determinante. Del resto, dovevano vedersela con avversari demotivati psicologicamente e dotati di armi che non sempre funzionavano.
I mezzi militari si fermavano prima di raggiungere il fronte e i comandanti, corrotti dai servizi segreti, abbandonavano i reparti al loro destino. In poche ore, l’Iraq si trovò sommerso da 30 mila bombe e 20 mila missili Cruise che lo paralizzarono. Non ci volle molto per mettere all’angolo le divisioni del Paese. E fu facile entrare in una Baghdad indifesa e già impegnata ad abbattere i «segni» di un regime che aveva terminato di agonizzare. Però fu allora che cominciarono i guai. Bush tenne un discorso dal ponte della portaerei Lincoln. Più che dalle ovvietà del momento, l’opinione pubblica fu suggestionata da un enorme striscione, appeso alle sue spalle, in favore di telecamera: «Mission accomplished». Sembrava che «il lavoro» fosse terminato e non era ancora iniziato. Nella terra che credevano liberata dalla dittatura, le strade diventarono il teatro dei regolamenti di conti. In ogni angolo un cadavere, vittima di una rapina, o un morto ammazzato per vendetta.
A distanza di qualche tempo, il governo iracheno ipotizzò che gli omicidi riguardarono «almeno» 180 mila persone. L’Onu corresse: erano «almeno» un milione. Gli americani non furono in grado di dipanare la matassa che loro stessi avevano ingarbugliato. Disponevano di conoscenze che, alla fine, si rilevarono sommarie circa la composizione sociale del Paese e, dunque, non offrirono gli strumenti adeguati per accompagnare quegli «sconosciuti» verso istituzioni rappresentative. Fino ad allora, il regime di Saddam Hussein si era appoggiato sulla minoranza sunnita preferibilmente di provenienza dalla città di Tikrit, dove lui era nato. Si trattava di un 20-25 per cento della popolazione, ma era in grado di tenere al guinzaglio il resto del Paese che restava attraversato da divisioni etniche, religiose, persino tribali. Le differenze erano tali da impedire alleanze robuste con il risultato di finire soggiogati da un nucleo ultra minoritario ma compatto.
Il ribaltone provocato dagli americani spazzò via il vecchio gruppo dirigente ma senza che emergesse una soluzione alternativa. Non giovò il tentativo di consegnare la piazza a vecchi arnesi che, sotto il dominio di Saddam Hussein, erano scappati dall’Iraq o erano stati esiliati. Il tempo trascorso all’estero aveva sostituito la mentalità araba con la cultura del Paese d’accoglienza. Era gente – come Iyad Allawi, Ahmad Shalabi o Adnan Pachachi – che non conosceva più gli iracheni e non era in grado di intrecciare alleanze durature. Credevano di rappresentare un ascendente forte per il fatto di essere stati vittime del passato regime, invece ispiravano soltanto sentimenti di diffidenza. Come gli americani. I gruppi presero a scontrarsi con le armi della dialettica (poche) e con le armi automatiche (troppe) al punto da trasformare le città in campi di battaglia di una guerra civile. Il gruppo più forte dei politici e militari «fai da te» seguì le indicazioni di Muqtada al-Sadr che, come un signore della guerra, riuscì a mettere in piedi una milizia battezzata «esercito del Mahdi» che si comportava come una forza autonoma a tutti gli effetti. Non il solo.
Gruppi armati di diverse dimensioni e con differenti ambizioni spadroneggiavano, ciascuno «governando» uno spicchio di quell’immenso territorio che è l’Iraq. Gli americani risposero come forza d’occupazione. I loro abusi e quelli della polizia che tenevano alle dipendenze vennero considerati «peggiori di quelli di Saddam». I prigionieri venivano torturati. Un gran numero dei morti denunciati era stato ammazzato dopo essere stato rapito e tenuto prigioniero per giorni. A Haditha, una squadra di marines avrebbe ammazzato 24 civili in risposta a un attacco contro truppe statunitensi. Gli elicotteri Apache mitragliarono Baghdad senza badare dove finivano i proiettili. Il filmato di uno di questi assalti venne pubblicato da WikiLeaks – l’organizzazione internazionale che ha diffuso notizie governative top secret – ed ebbe diffusione mondiale. Per questo, il soldato Chelsea Manning venne condannato a 35 anni di carcere: non perché protagonista di quei misfatti ma perché aveva favorito la divulgazione del video.
Gli Stati Uniti finirono per offrire – indirettamente – un denominatore comune ai gruppi armati di opposizione tanto da creare il collante che li tenesse insieme. Nel 2013, Abu Bakr al-Baghdadi annunciò la costituzione dello «Stato islamico» con capitale Falluja. Fu la calamita di una moltitudine che, avendo toccato con mano l’arroganza degli americani, volevano soltanto dare loro addosso. Loro e tutti gli occidentali che, in un modo o nell’altro, potevano essere accumunati. In fondo, le due guerre del Golfo si rivelarono un fallimento di proporzioni bibliche. In un anno, il prezzo del greggio altro che dimezzarsi, passò dai 30 ai 75 dollari al barile e l’anno successivo toccò i 100. Le spese inizialmente preventivate in 40 miliardi di dollari vennero corrette subito in 200 e continuarono a crescere fino a superare i 550. Ma uno studio, firmato da Linda Bilmes e Joseph Stiglitz (che è un premio Nobel per l’economia) sostiene che, fra il denaro speso per davvero e le conseguenze da attendersi, si arriva ai 3 mila miliardi.
