Mentre gli altri istituti privatizzati funzionano bene, quello dei giornalisti è in passivo e destinato a confluire nell’Inps. La categoria si inalbera. Ma, come spiega l’esperto di previdenza Alberto Brambilla, un compromesso è possibile.
Forse non ve ne siete accorti, ma la libertà di stampa in Italia è in pericolo. E non perché Mario Draghi sotto sotto è un dittatore o perché gli editori hanno i bilanci traballanti e devono compiacere i grandi investitori pubblicitari. No, il Grande Fratello è l’Inps presieduto da Pasquale Tridico che essendosi detto disponibile ad assorbire l’Istituto previdenziale dei giornalisti, da anni in rosso, rappresenta una minaccia per la democrazia. «Dobbiamo lottare per permettere la sopravvivenza dell’istituto per salvaguardare l’indipendenza della professione» ha dichiarato la presidente dell’Inpgi Marina Macelloni «e per garantire il diritto dei cittadini ad avere un’informazione di qualità, presidio di democrazia».
Una tesi un po’ bizzarra, perché non si capisce che cosa c’entri la pensione con la democrazia: per quale motivo un giornalista che versa i contributi all’Inps e che quindi è sicuro di ricevere una pensione sarebbe meno libero di uno che li versa all’Inpgi, cioè ad un ente che non sta in piedi e ha chiuso il 2020 con un disavanzo di 242,2 milioni? Ma il polverone che si è alzato sull’istituto previdenziale controllato da editori e sindacato dei giornalisti rischia anche di riverberarsi sui lavoratori delle altre casse privatizzate, i quali potrebbero temere di finire in una situazione simile a quella vissuta dagli operatori della stampa.
«Intanto, prima di parlare del futuro dell’Inpgi, bisogna subito sgombrare il campo da qualsiasi dubbio: la privatizzazione delle casse dei lavoratori autonomi, avviata con il decreto 509 del 1994 e proseguita due anni dopo con il decreto 103, è stata un successo» sottolinea Alberto Brambilla, presidente del Centro studi e ricerche Itinerari previdenziali, consigliere economico alla presidenza del Consiglio dal 2018 al 2020 e uno dei maggiori esperti di temi pensionistici. «Come mostrano i dati raccolti nel nostro rapporto annuale si tratta di un’esperienza riuscita: le 20 casse, dalle più grandi come quella dei medici o degli ingegneri e architetti fino agli istituti dei commercialisti o dei veterinari, hanno tutte i parametri in ordine e migliori rispetto ai dati di partenza. Il sistema è sano».
Queste casse sono tutte sostitutive dell’Inps: incassano i contributi degli iscritti e versano le pensioni. La loro caratteristica fondamentale è che gli iscritti sono in prevalenza professionisti, cioè lavoratori non dipendenti (a differenza dell’Inpgi che sotto questo profilo è una cassa privatizzata anomala): ma ci sono anche delle minoranze di iscritti che sono assunti, come, per esempio, i medici degli ospedali che affluiscono in una apposita gestione dell’Enpam, o un certo numero di veterinari o di geometri. Quindi queste categorie hanno avuto successo nell’autogovernarsi le pensioni, pur sotto la vigilanza dello Stato. Ma c’è stato anche chi ci ha provato e ha dovuto fare marcia indietro finendo nell’Inps: i dirigenti d’industria. «Quando quasi trent’anni fa si decise di avviare l’operazione di privatizzazione di alcune casse» racconta Brambilla, che nel 1994 era consigliere economico della presidenza del Consiglio, «c’erano due istituti che destavano qualche preoccupazione: quello dei dirigenti industriali, l’Inpdai, e l’Inpgi».
A differenza della cassa dei giornalisti, quella dei dirigenti non si è mai privatizzata: ha preso tempo e ha aspettato fino al termine del 1999 per vedere se ce l’avrebbe fatta da sola, introducendo una serie di riforme per tentare di rimettere in equilibrio i conti. E visto che i numeri non tornavano e che i manager in attività erano sempre di meno e i pensionati sempre di più, nel 2001 l’Inpdai rinunciò alla privatizzazione e confluì nell’Inps.
Con quali conseguenze per i dirigenti in pensione? «Nessuna, non cambiò assolutamente nulla» risponde Brambilla. «Il dirigente ancora in attività si è adeguato ai versamenti contributivi e alle regole dell’Inps, ai quali l’Inpdai si era comunque via via già allineato per cercare di salvare i bilanci, mentre il manager in pensione non ha subito alcuna decurtazione. L’Inps ha assorbito il patrimonio dell’Inpdai che era molto più robusto dell’attuale patrimonio dell’Inpgi e tutto si è concluso con la soddisfazione degli iscritti, rassicurati sul futuro della propria pensione».
Per i 130.000 dirigenti industriali finire nel mare magnum dei 30 milioni di iscritti all’Inps è stata dunque una scelta dovuta e poco traumatica. La storia dei dirigenti industriali è simile a quella dei giornalisti: entrambi hanno subìto una forte crisi ed entrambi hanno visto la propria categoria colpita da riduzione dei lavoratori in attività, esplosione dei prepensionamenti e conseguente squilibrio tra contributi e pensioni. Ma i giornalisti, avendo imboccato la strada della privatizzazione, ora sono finiti sull’orlo del burrone. E chiedono che l’Inps trasferisca al loro istituto in profonda crisi i lavoratori della comunicazione, per aumentare i contributi. Ma con poche speranze di essere accontentati.
È dunque inevitabile il passaggio dell’Inpgi all’Inps? «Visto che l’esperimento della privatizzazione delle casse dei lavoratori autonomi ha funzionato benissimo io direi che solo una parte dell’Inpgi dovrebbe passare sotto l’Inps, cioè la gestione delle pensioni dei giornalisti dipendenti. L’Inpgi ha una tecnostruttura di prim’ordine e non è certo responsabile delle scelte dei suoi azionisti, cioè editori e sindacato, che già nel 2001 sapevano dei rischi che correva l’istituto. Secondo me l’Inpgi dovrebbe perciò continuare a esistere e gestire la previdenza dei giornalisti autonomi, che funziona benissimo, e il fondo di previdenza complementare. Mentre ormai per la gestione sostitutiva dell’Inps non c’è niente da fare, neppure l’arrivo dei comunicatori potrebbe salvarla».
Secondo Brambilla, l’ipotetico passaggio dei comunicatori all’Inpgi si rivelerebbe solo un tampone momentaneo. E poi, per quale ragione dei lavoratori che oggi stanno all’Inps dovrebbero trasferirsi in un istituto in difficoltà? Se venissero obbligati, sicuramente risponderebbero con un’ondata di ricorsi.
Ma che cosa accadrebbe ai giornalisti in pensione in caso di confluenza dell’Inpgi nell’Inps? «Niente, non cambierebbe nulla, continuerebbero a incassare quello che prendevano prima. Se pensiamo che l’Inps ha assorbito con l’Inpdap oltre 600.000 baby-pensionati, cioè persone andate in pensione con appena 20 anni e sei mesi di contributi, farsi carico di qualche migliaia di giornalisti con almeno 30-35 anni di versamenti non è un problema. Tutto il patrimonio dell’Inpgi destinato a coprire la gestione sostitutiva dell’Inps passerebbe a quest’ultimo che si farebbe carico dei pensionati attuali ai quali che non toglierebbe nulla. Per chi invece deve ancora andare in pensione, varrebbero le regole dell’Inps, con le varie opportunità dall’istituto offerte, per esempio alle donne, per ritirarsi in anticipo». E la libertà di stampa in pericolo? «Francamente non comprendo questi allarmi: non è che uno perché è iscritto all’Inps perde il diritto di parlare».