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I lavoratori? Macchine, più che persone

I lavoratori? Macchine, più che persone

Dipendenti licenziati via WhatsApp. Aziende che delocalizzano. E tante morti bianche per incuria. Ma no, i lavoratori non sono «attrezzi».


È vero che il lavoro è uno scambio tra il lavoratore che offre e presta la sua opera e l’imprenditore che domanda e retribuisce l’attività svolta. Certo, è uno scambio commerciale, ma ci sono anche di mezzo delle persone, delle famiglie, dei bambini a casa da mantenere, degli anziani magari a carico, i bisogni e le necessità varie di una famiglia da soddisfare in modo adeguato.

È vero che un’azienda deve campare, fare profitti e ha il diritto di decidere se lasciare l’attività in Italia o spostarla all’estero (delocalizzarla) per andare a cercare condizioni più favorevoli sia da un punto di vista fiscale sia burocratico. L’ultimo rapporto della Banca mondiale sulla competitività in giro per il mondo, cioè sulle condizioni che rendono più facile o più difficile la vita di un’impresa non ci colloca affatto bene: risultiamo a circa metà classifica su 190 Paesi.

Non saremo certo noi a voler limitare la libertà d’impresa, ma c’è un limite che è il rispetto delle persone impegnate in un’attività. È il caso della vicenda dei lavoratori della Logista, una multinazionale che opera per conto dello Stato nella distribuzione dei prodotti del tabacco. Ebbene una novantina di addetti al magazzino hanno scoperto, tramite un messaggio su Whatsapp, di non avere più un lavoro.

Non c’era altro modo di comunicarlo? Avendo rapporti di collaborazione con lo Stato ci saranno pur state delle clausole da rispettare, dei tempi entro i quali segnalare la decisione, delle possibilità di rivolgersi al ministero per lo Sviluppo economico che gestisce molti tavoli di aziende in crisi, o no? E qualche riflessione ce la fa fare anche la modalità con cui la Gkn di Firenze che da sempre forniva componenti per la trasmissione per l’80% alla Fiat, poi Fca (Fiat-Chrysler), e per il restante 20% ad Audi, Bmw, Ferrari, Maserati, Land Rover.

Un’impresa con una produttività notevole e universalmente riconosciuta. Il sindaco di Firenze Dario Nardella per l’occasione sostenne che si trattava di uno scandalo nazionale. Ora si può pensare di Nardella quello che si vuole, ma non certo che è un feroce anticapitalista e anti-industrialista. Evidentemente le sue parole si riferivano al «fattore umano» che nel lavoro non può mai essere trascurato. Mai da nessuno.

E mettiamo pure che in questo caso, come nell’altro ricordato, dal punto di vista legale-giuridico e di diritto del lavoro si sia svolto tutto nel rispetto delle leggi (cosa tutta da verificare), ebbene le modalità rendono quell’atto non accettabile perché in questo caso – quando c’è di mezzo il lavoro – la formalità è sostanza fatta di lavoratori e lavoratrici in carne ed ossa e delle loro famiglie che dall’oggi al domani si trovano nella condizione di povertà ovvero una tenaglia da cui è difficile uscire una volta che ci si cade, soprattutto attorno alla cinquantina.

Così come ci fanno pensare le morti recenti sul lavoro di Laila El Harim, 40enne, avvenuta il 3 agosto, e quella di Luana D’Orazio, 22enne morta lo scorso maggio a Prato. In ambedue i casi sono state aperte delle indagini perché ci sono forti e sembra fondati sospetti che non siano state rispettate le norme di sicurezza del lavoro che lo avrebbero reso – una volta rispettate – più lento e meno produttivo. Sono fatti che se confermati dalle indagini sarebbero di una gravità per cui troviamo con difficoltà l’aggettivo adeguato. La domanda che riguarda lo Stato è la seguente: qualcuno aveva controllato quegli impianti, qualcuno dell’Inl (Ispettorato nazionale del lavoro che doveva a partire dal 2017 unificare le funzioni di ispezione nel settore, prima che venissero disseminate tra Inps, Inail e ministero del Lavoro) c’era mai stato in quei posti?

Anche qui non siamo di fronte a un peccato veniale (se c’è peccato) ma mortale e non perché ha provocato la morte una probabile incuria ma perché si sono considerate quelle persone alla stregua di uno strumento meccanico, di un attrezzo, di una merce qualsiasi e invece erano donne nel pieno degli anni con una vita davanti e tanti sogni che pesano molto, più dei salari. In Italia gli ispettori sono pochi e mal pagati: si aggirano sui 7.000 e gli incidenti mortali sul lavoro sono ancora molti: 2,5 ogni 100.000 lavoratori contro una media europea di 1,9.

Si registra inoltre, e non stupisce, un calo delle aziende ispezionate dall’Inps da poco meno di 90.000 nel 2010 a poco più di 15.000 nel 2019, e per l’Inl da 150.000 a 113.000 nel 2019. Capite bene che sono numeri ridicoli. Poi non si può sentire il piagnisteo della politica che grida allo scandalo per cosiddette morti bianche, quelle sul lavoro. Non siamo una società di santi e l’unico deterrente sono le leggi, la loro applicazione, il controllo e la sanzione di chi non le rispetta. Altra strada non c’è. Altrimenti i lavoratori e le lavoratrici non hanno nulla di diverso da una macchina.

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