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Il sangue della resistenza

Il sangue della resistenza

Un libro con pagine cruciali di Giampaolo Pansa e un corredo di immagini, curato dalla moglie Adele Grisendi, riaccende il dibattito sulla guerra civile d’Italia tra 1943 e 1946 oltre i vecchi stereotipi.



Il sangue della resistenza


Non si tratta di una semplice antologia né di una celebrazione. Ma – come accade da una quindicina d’anni a questa parte – alla vigilia del Natale, le librerie ospitano una pubblicazione di Giampaolo Pansa. Il grande giornalista scomparso nel gennaio scorso, i testi di questo nuovo volume li ha scritti in tempi diversi e per differenti circostanze.

È stata la moglie Adele Grisenti a cucirli ora insieme, scegliendo le pagine più appropriate in una sterminata produzione legata al tema della «guerra civile 1943-1946». Titolo forte: Il sangue degli italiani che sono stati le vittime di un conflitto bestiale, incapace di distinguere fra soldati e civili, responsabili di qualche colpa o semplicemente accusati di reati non dimostrati. Perciò, nella pagine del libro, compaiono i partigiani trucidati dalle camicie nere alla Benedicta e i fascisti massacrati a Schio, a Bogli o a Rovegno. Un ricchissimo corredo fotografico rende ancora più vividi quegli episodi.

Sono citati Giuseppe Ottolenghi, il primo ebreo di Casale Monferrato ucciso con un colpo in testa e i 70 israeliti, catturati e spediti nei campi di concentramento. E le donne, indicate come collaboratrici della Repubblica Sociale, rapate a zero (e andava bene se si fermavano lì) violentate e ammazzate come non accade nemmeno per gli animali.

Ci sono i contadini con mogli e figli, trucidati dai tedeschi a Sant’Anna di Stazzema, San Quirico e Pedescala con la popolazione indecisa fra l’accusare per intero i nazisti per le atrocità commesse o attribuire colpe anche ai partigiani che «spararono e sparirono» essendosi resi protagonisti di un’azione di nessuna efficacia strategica ma capace di mettere nei guai la gente del paese.

L’argomento della Resistenza ha appassionato Pansa fin dagli anni dell’università quando preparava la tesi di laurea sulla guerra partigiana «fra Genova e il Po». Il grande pubblico non lo conosceva ancora ma, già allora, poteva essere considerato «un revisionista». Parole sue, nel 1959, intervenendo a un convegno dedicato ai temi del conflitto mondiale aveva contestato «la retorica alluvione che seppellisce la verità».

La verità è che Pansa, giornalista a 24 carati, impegnato a scavare per trovare le notizie, ha applicato lo stesso schema alla storia. Lui si definiva ricercatore «della domenica» ma anche in quel giorno, dedicandosi al passato più per passione che per professione, non si accontentava della prima cosa che gli veniva riferita. Chiedeva conferme… e ancora… e ancora. Senza preoccuparsi del rischio di scoprire scheletri negli armadi o dell’essere costretto a togliere dal piedestallo qualche eroe che ne aveva usurpato il posto.

Il contrario di quello che rimproverava a Roberto Battaglia il quale, prima di dare alle stampe la sua opera sulla Resistenza, aveva mandato il manoscritto a Luigi Longo numero due del partito comunista. A Botteghe Oscure suggerirono una serie di correzioni.
Il Pci si considerava depositario dell’esclusiva sul conflitto che aveva opposto partigiani e fascisti. Era necessario che non ci fossero contestazioni ma nemmeno qualche pur velato rilievo alla tesi che «la Resistenza era comunista».

Per questo una revisione sarebbe indispensabile a cominciare – secondo Pansa – dall’accertamento del numero dei partigiani combattenti. La storia ufficiale si affida alla selva di memoriali per lo più pubblicati nell’immediato dopoguerra che, oltre all’enfasi, propongono vicende senza chiaroscuri dove il protagonista (cioè quello che firma il resoconto) appare come un cavaliere senza macchia e senza paura.

Non ci sono peccati né colpe: solo altruismo e disinteresse. Troppo unilaterale e troppo poco plausibile. La verità dovrebbe nascere dal confronto delle varie testimonianze e, più ancora, da interviste dirette con la possibilità di evidenziare incongruenze ed errori. E poi perché non utilizzare anche le fonti cosiddette fasciste. «Sarebbe possibile» si è domandato Pansa «raccontare Caporetto senza fare cenno agli austriaci?»

Certo, a scavare nelle pieghe di una storia tormentata, non è difficile imbattersi in episodi che contraddicono l’immagine del partigiano tutto dedizione e sacrificio. Porzûs, per esempio, che per la retorica della Resistenza è un autentico tabù. Fra l’8 e il 19 febbraio 1945, i partigiani «rossi» capeggiati da «Giacca» Mario Toffanin trucidarono i compagni «bianchi» che facevano riferimento a «Bolla» Francesco De Gregori. La ragione del dissidio consisteva nel fatto che le terre friulane di confine con la Jugoslavia erano considerate italiane dai non-comunisti, mentre gli altri assecondavano i progetti del maresciallo Tito che pretendeva di occupare quei territori. Parlarono le armi.

I comunisti fecero irruzione nella baracca di sassi che ospitava il comando «bianco» della brigata Osoppo. Ne ammazzarono subito quattro e ne catturarono altri 16 che, con lentezza disumana, furono sballottati da una casupola all’altra, vittime di angherie e di processi sommari. Alla fine, dopo dieci giorni di attesa che, di per sé, è una tortura li fucilarono. Ci fu un solo superstite: Aldo Bricco «Centina» che si buttò in un dirupo dove non riuscirono a seguirlo. Si fracassò sulle rocce ma è rimasto vivo.

Ma pagine per nulla edificanti riguardano i preti ammazzati a sangue freddo davanti alla chiesa. Don Pasquale Borghi, don Tiso Galletti, don Domenico Gianni non erano reazionari. Anzi, avevano sinceramente favorito la Resistenza ma non accettavano la giustizia sommaria che alcune bande partigiane intendevano attuare per «fare piazza pulita» di nemici, avversari o anche soltanto tiepidi sostenitori. Loro con don Enrico Donati, don Giuseppe Galassi, don Raffaele Bortolini e altri 15. Per i partigiani comunisti non esistevano vie di mezzo: o l’adesione ai progetti ideologici del Pci era assoluta o si passava direttamente nell’elenco delle persone da eliminare. Con questi riferimenti, alcune morti inspiegabili risultano meno misteriose.

Quella di Aldo Gastaldi, per esempio, genovese, primo di cinque fratelli di una famiglia come tante. Era arruolato nell’esercito con il grado di tenente ma l’8 settembre (1943) lasciò la divisa per arrampicarsi sul costone del Cichero, entroterra di Chiavari. La sua militanza partigiana (nome di battaglia «Bisagno») si compì sotto il segno del cattolicesimo militante. Era «austero come un frate», impediva che si bestemmiasse e pretendeva di tenere lontana la politica.

«Dopo» – il suo volere – ognuno avrebbe preso le decisioni più opportune. Non poteva andare d’accordo con l’intellighenzia «rossa» rappresentata dal suo vice Bini. Pure lui sembrava un monaco, però comunista. Aveva fatto il professore e scriveva poesie ma la sua missione era per il partito che meritava qualunque sacrificio. Lo scontro si risolse a maggio. «Unica cosa certa» per Pansa «che “Bisagno” il 20 era vivo e il 21 era morto». La versione ufficiale ha sentenziato che è caduto dal tettuccio di un camion finendo stritolato sotto le ruote. Ma, sottovoce, si è sostenuto che fosse stato avvelenato e che quando ha perso l’equilibrio era già morto.

Ammettere delitti anche brutali è faticoso ma non esiste alternativa se s’intende costruire una memoria condivisa. Scovare episodi infamanti e scriverne non significa ignorare i meriti della Resistenza o, peggio, parteggiare per gli avversari. A Pansa, la lezione sul da farsi è venuta dalla lettura di una pagina del Partigiano Johnny, il romanzo di Beppe Fenoglio, che a Sander, al quale non piacciono né i fascisti né i partigiani, impone: «Devi scegliere quella che ti dispiace di meno…».

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