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Il ritorno di Roth, profeta dei disastri del woke

Il ritorno di Roth, profeta dei disastri del woke

Le opere dell’autore ebreo americano verranno ripubblicate da Adelphi. I suoi scritti furono accusati di antisemitismo, ma in realtà erano una sfida ai moralizzatori che inseguono la follia della purezza

È qualcosa che assomiglia molto al peccato originale. Un segno che non va via, e che ci rende imperfetti, limitati, inevitabilmente impastati di bene e di male, di alto e basso. «Noi lasciamo una macchia, lasciamo una traccia, lasciamo la nostra impronta. Impurità, crudeltà, abuso, errore, escremento, seme: non c’è altro mezzo per essere qui. Nulla a che fare con la disobbedienza. Nulla a che fare con la grazia o la salvezza o la redenzione.

È in ognuno di noi. Insita. Inerente. Qualificante. La macchia che esiste prima del suo segno. Che esiste senza il segno. La macchia così intrinseca che non richiede un segno. La macchia che precede la disobbedienza, che comprende la disobbedienza e frustra ogni spiegazione e ogni comprensione. Ecco perché ogni purificazione è uno scherzo. Uno scherzo crudele, se è per questo. La fantasia della purezza è terrificante». 

Terrificanti sono gli uomini che pensano di raddrizzare il legno storto dell’umanità, di dividere bene e male senza tenere conto delle ombre. I grandi inquisitori e moralizzatori, i censori irreprensibili che dimenticano l’umanità. La follia della purezza: ne La macchia umana – il capolavoro con cui Philip Roth ha inaugurato il secolo – esplode fin dalle prime pagine. E questa follia lo scrittore ebreo americano la conosceva fin troppo bene, avendola patita nella carne, come se fosse la sua condanna. I critici lo massacrarono già dal suo primo successo planetario, quel Lamento di Portnoy che inaugura ora (intitolato semplicemente Portnoy) la ripubblicazione delle opere di Roth per i tipi di Adelphi. Lo accusarono addirittura di antisemitismo, perché aveva dato campo libero a un personaggio sconcertante, fissato con la masturbazione, flagellato dal vizio, e in qualche modo desideroso di strapparsi dalla schiena il proprio retaggio. 

Portnoy che sembra non poterne più di essere ebreo anticipa Coleman Silk, protagonista de La macchia umana. Un nero dalla pelle chiara che decide di liberarsi della razza. Si fa passare per ebreo, per bianco, e sembra una fuga ma non le è del tutto. Come ha scritto il filosofo Alain Finlielkraut commentando il romanzo, Silk «si rifiutava di circoscrivere le proprie possibilità esistenziali alla gamma dei ruoli proposti dallo sguardo della società. Voleva scrivere lui stesso la propria partitura. Voleva definirsi da sé. Voleva godere della promessa fatta ad Adamo, assumendo la pelle non di un bianco ma di un incolore. Non era dunque per viltà o per opportunismo che passava da un noi a un altro. Quello con cui Coleman cambiava pronome era un atto di audacia. Si divincolava dalla presa della prima persona plurale: Coleman era un pioniere dell’Io. Il suo percorso e la sua decisione hanno qualcosa di eccezionale ma non nascono dal nulla; è stato il genio della nazione a ispirargli la scelta di rinnegare razza e storia per essere individuo nel pieno senso del termine. Che cos’altro fa Coleman, con la sua folle impresa, se non trovare una soluzione americana alla tragedia dell’America? Pico della Mirandola ha dato il via alla modernità occidentale quando ha attribuito all’essere umano la capacità, e anzi il dovere, di costruire il proprio essere. Ma, in Occidente, c’è soltanto un luogo integralmente moderno: il continente nordamericano. […] Il fascino del Nuovo Mondo sta nel rifiuto di cercare un compromesso tra il passato e l’avvenire, come invece avviene nel Vecchio Continente. Self-made man: questo è il principio dell’homo americanus, e vale tanto per Coleman Silk, che recide il cordone ombelicale per diventare ciò che ha scelto di essere, quanto per Howard Hughes o Bill Gates, baciati da un fulmineo successo materiale». 

Il sogno di Silk lo conduce a un inferno sulla terra. Divenuto professore di lettere classiche all’Athena College, vi insegna per vent’anni stimato e applaudito. Fino a quando qualcosa cambia: una nuova generazione di americani avanza e compare quella che in seguito avremmo chiamato cultura della cancellazione. Ecco il riassunto della tragedia fornito da Claudia Roth Pierpont, ottima «biografa letteraria» (e non parente) di Philip: «Dopo che per sei settimane due studenti hanno mancato di presentarsi a lezione Silk se ne esce così: “Esistono o sono degli spettri?”. Poiché storicamente la parola “spettro” è stata usata come insulto contro gli afroamericani, e gli studenti in questione si riveleranno poi effettivamente afroamericani, Silk subisce un richiamo per razzismo. Un’accusa talmente ridicola, ma così debilitante per le umiliazioni che ne conseguono (convocazioni, interrogatori, indagini), da indurlo a considerarlo uno scherzo di pessimo gusto, fino a quando la moglie, sessantaquattrenne e in perfetta salute, muore improvvisamente per un ictus. 

Silk stava per divorziare dalla moglie, la tempesta in università li ha riavvicinati, ma ha ucciso lei. E lui è travolto dalla furia, vuole vendicarsi affidando a Nathan Zuckerman (lo scrittore protagonista di alcuni dei più grandi libri di Roth) il racconto rabbioso dell’ingiustizia subita. Si placa appena quando s’innamora di una donna molto più giovane di lui e sfortunata, ma anche quella relazione è funestata dai pettegolezzi e da lettere anonime probabilmente inviate da una collega femminista. Nel calvario di Silk c’è in parte quello di Roth. Stimate professoresse impegnate lo hanno bollato quale misogino. Non gli hanno mai dato il Nobel forse proprio perché era considerato sporco, impuro, politicamente poco utile. 

La cultura della cancellazione che aveva previsto ha travolto persino l’altro suo biografo Blake Bailey, accusato in pieno Me Too di aver abusato di alcune donne e di aver «adescato» sue giovanissime allieve con cui, una volta divenute adulte, ebbe rapporti sessuali. Bailey è diventato un personaggio di Roth, ha scritto una critica americana, e da poco ha raccontato la sua storia in un memoir: Canceled Lives: My Father, My Scandal, and Me

Nella Macchia umana, quindici e più anni prima che il Me Too e la cancel culture esplodessero, Philip Roth aveva deplorato il furore censorio commentando il caso Clinton-Lewinsky: «Nell’aula del Congresso, sulla stampa e alla televisione, i cialtroni tronfi e morigerati, smaniosi d’incolpare, deplorare e punire, facevano i moralisti a più non posso: tutti in un parossismo calcolato di quello che Hawthorne (il quale, negli anni tra il 1860 e il 1870, abitava a non molte miglia dalla porta di casa mia) identificò, nel Paese nascente di tanto tempo fa, come “lo spirito di persecuzione”; tutti ansiosi di celebrare gli astringenti riti purificatori che avrebbero estirpato l’erezione dall’esecutivo, rendendo così la situazione abbastanza confortevole e sicura perché la figlia decenne del senatore Lieberman potesse riprendere a guarda-re la TV col suo imbarazzato paparino. No, se non siete vissuti nel 1998 non sapete cos’è l’ipocrisia». 

Altre e più feroci ipocrisie sarebbero venute e Roth, morto nel 2018, ne vide solo una orrenda parte. Ma le aveva già raccontate tutte e in qualche modo aveva messo in guardia. I suoi personaggi avevano tentato di sfuggire alla tormenta rifiutando l’identità, provando a rifarsi da sé come si era rifatta l’America. Ma proprio come la costruzione americana ha richiesto un tributo di sangue, così gli uomini creati da Roth non hanno potuto liberarsi delle proprie origini senza che queste si ripresentassero a chiedere un doloroso conto. Anzi, molta della «follia della purezza» attuale nasce esattamente dal desiderio di farsi da soli, dal tentativo purificarsi ricordandosi, eliminando a forza la «macchia umana». Solo che la macchia rimane, ed è solo convivendoci che si può sopravvivere. Accettando il limite, l’imperfezione e la stortura: l’uomo con le sue ombre.

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