Mentre le cosiddette partite Iva vedono le loro attività andare in fumo, nella manovra 2021 appena annunciata dal governo ci sono 10 miliardi per i dipendenti pubblici.
La scorsa settimana, in tv, mi è stato chiesto di commentare le misure economiche varate dal governo a favore delle imprese costrette a chiudere a causa della pandemia. Per spiegare il mio pensiero, mi sono limitato a offrire al pubblico un semplice calcolo, ho cioè diviso il miliardo messo a disposizione dal decreto Ristori con il numero degli aventi diritto all’indennizzo.
Risultato: poco più di 4.000 euro a testa per ristoratori, commercianti, artigiani. Ovviamente, come sempre capita nel pollaio televisivo, c’è qualche gallina che si crede gallo e dunque si mette a strillare più forte, forse nella convinzione che alzando la voce a casa si senta meglio. Ma non voglio parlarvi delle reazioni di chi sta in studio o in collegamento, bensì di chi si trova dall’altra parte della barricata, ovvero in salotto, davanti al video, e sa meglio di me e di chi obietta alle mie tesi come stiano le cose.
Già, perché mentre spiegavo che 4.000 euro sono poco più di un’elemosina per chi è costretto a pagarne altrettante solo d’affitto dei locali per il proprio esercizio, sul telefonino, per sms o via mail, arrivavano i commenti degli ascoltatori. Per ragioni di spazio non posso riferirli tutti, ma mi limiterò ad alcuni.
In particolare mi ha colpito la storia di Carlotta e della sua famiglia, lettrice di Panorama. Scrive da Torino e premette che se si urla si fa più rumore, ma è anche vero che tra tante urla si fa fatica a distinguere la voce di chi ha qualche cosa di interessante da dire.
Di certo, Carlotta non urla, ma argomenta. Da 44 anni, lei e i suoi hanno un’enoteca e un ristorante nel centro di Torino: 11 dipendenti più papà e mamma, oltre a lei. In tutto 13 persone impiegate in quella che è a tutti gli effetti una piccola azienda e che da mesi è costretta a fare i conti con il coronavirus, ma soprattutto con i Dpcm, ossia con l’ottusa burocrazia ministeriale.
Spiega Carlotta: «Oltre ai problemi noti che stiamo affrontando da mesi, come i colleghi che fanno il nostro stesso lavoro, questa volta dobbiamo fare i conti anche con un’altra difficoltà. Nella nostra visura, come codice Ateco primario (la definizione alfanumerica con cui vengono classificate le attività commerciali, ndr) risultiamo commercianti al dettaglio di bevande, e come codice secondario invece siamo classificati nel settore ristorazione con somministrazione. Per cui, secondo la legge, noi non abbiamo diritto ad accedere agli aiuti del decreto Ristori. Perché l’enoteca può rimanere aperta e anche se nessuno passeggia per le vie del centro e nessuno consuma, e dunque non può rivendicare aiuti. Per quanto concerne il ristorante, invece, è chiuso perché non si possono somministrare alimenti».
Insomma, un’impresa che dà lavoro a 13 persone e che ha quasi 50 anni di storia, è in ginocchio e rischia di chiudere. «Quando si apre un’attività si sa che si corrono rischi, che lo stipendio non è sempre garantito, ma dopo 45 anni di fatica, la pensione di mio papà me la immaginavo in maniera diversa».
Ma Carlotta non è la sola a esprimere la propria disperazione e la propria rabbia per un’attività che vede andare in fumo tra l’indifferenza e l’incompetenza di chi ci governa. A proposito di ristori pubblici e di affitti, Maurizio mi segnala che il padre, per il negozio di valigie in centro a Milano, paga 36.000 euro al mese, dunque i 4.000 messi a disposizione dal ministro dell’Economia non gli bastano neppure per un sesto del canone.
E Catia, titolare di un centro estetico, sempre nel capoluogo lombardo, di euro invece non ne ha visto neppure uno. «Abbiamo pagato affitti, spese condominiali e bollette, ma nonostante le domande presentate non ci è stato erogato nulla, perché i fondi erano finiti. Così, purtroppo, non vedremo neppure quelli promessi a novembre, perché l’accredito è automatico solo per coloro che hanno già ricevuto il primo aiuto nella scorsa estate». Catia segnala che i dipendenti in cassa integrazione, tra marzo e aprile, hanno ricevuto 58 euro e a lei viene promesso il credito d’imposta: «Ma se siamo in perdita» si chiede, «che me ne faccio del credito d’imposta? Mica ci mangio».
Michela invece mi scrive a proposito dei negozi di abbigliamento e calzature, che anche quando possono tenere le serrande alzate hanno fatturato pari a zero, perché se sono vietate le cerimonie, le feste, chiusi cinema e ristoranti e le persone lavorano da casa, perché la gente dovrebbe comprare capi di abbigliamento? Tuttavia i negozianti devono pagare i fornitori anche se non incassano.
Potrei continuare, ma credo che dal settore della ristorazione a quello del commercio o dei servizi, la realtà sia più o meno uguale. Tutti si aspettavano di non essere lasciati indietro, come promise il presidente del Consiglio in primavera, ma oggi in tanti si sentono abbandonati, figli di uno Stato minore, che non tratta tutti allo stesso modo.
Certo, dopo aver letto i messaggi delle cosiddette partite Iva, è difficile mandar giù la notizia che nella manovra 2021 appena annunciata dal governo ci sono 10 miliardi per i dipendenti pubblici. Nonostante questi ultimi non abbiano perso lo stipendio e abbiano potuto lavorare da casa, il governo prevede assunzioni e anche «un impegno finanziario per il rinnovo dei contratti di lavoro». Fate voi: da un lato c’è un miliardo per «ristorare» chi è costretto a chiudere, dall’altro 6,7 miliardi di aumenti salariali per chi è stato costretto a non andare in ufficio. Altro che urla da pollaio. Qui si rischia di finire spennati.
