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«Il Grillopardo»: rifondare tutto perché tutto resti uguale

L’Elevato spariglia le carte per restare l’unico garante e il custode dell’azione politica del Movimento. Perché è lui alla fine che comanda. Una legge non scritta che solo un «parvenu» del potere come Giuseppe Conte poteva pensare


Cos’è il genio?» ragionava il Perozzi in Amici miei. «È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione». E Beppe Grillo, in questi quasi dodici anni ritmati da vaffanculo e carezzine, ha dato indubbia prova di estro. Era lui il genio, ovvio. Con le sue improvvisate truppe che invadevano tutto, dal ministero degli Esteri al comune di Troina, a far da figuranti. Così, li ha imbrigliati subito: statuti, codici, regolamenti, commissioni, reggenti… Fino all’ultima fumisteria: i sette saggi dediti alla sintesi del vecchio statuto con quello redatto da Giuseppe Conte. Perché l’azzeccagarbugli di Volturara Appula s’era messo in testa di battere il fondatore con le stesse armi da leguleio: articoli e sottocommi. D’altronde, dopo l’addio a Palazzo Chigi, non l’aveva richiamato in servizio proprio per guidare il Movimento?

Oddio: proprio guidare, no. Metterci la faccia, magari. A comandare c’avrebbe pensato sempre l’ex comico. Invece Giuseppi ritiene che uno statista del suo calibro, davanti a cui Donald Trump e Angela Merkel si scappellavano, dev’essere incoronato monarca assoluto. Colui che l’aveva issato per due volte a Palazzo Chigi, non conterebbe più nulla. Garante dei «valori dell’associazione M5s», dunque. E non «custode dell’azione politica», come nel vecchio statuto. Vergato non a caso dall’avvocato Enrico Grillo: nipote del fondatore.

«Non ha visione politica» si sfoga quindi Beppe. «È un padre padrone» replica Giuseppi. Poi il Marchese del Grillo, quello dell’«io so’ io e voi nun siete un cazzo», si ricorda di essere anche il Conte Mascetti, quello della «prematurata la supercazzola, o scherziamo?». Ed ecco l’ideona: il comitato di saggi. Sette giganti della Terza Repubblica. Alcuni sono grillini: il presidente della Camera Roberto Fico, il ministro degli Esteri Luigi Di Maio, l’europarlamentare Tiziana Beghin e il numero uno alla Camera Davide Crippa. Altri sono contiani: il reggente Vito Crimi, il ministro dell’Agricoltura Stefano Patuanelli e il capogruppo al Senato Ettore Licheri. Quattro a tre. Palla al centro. Come finirà la contesa? Risultato scontato. L’Elevato vuole rimanere garante e custode dell’azione politica. E sarà questa la «sintesi» a cui dovrebbero arrivare i meravigliosi sette.

Del resto Grillo, fin dalla nascita del Movimento, ha continuamente aggirato regole e imposizioni. Supercazzole, appunto. Decide la Rete? Uno vale uno? Macché. Comanda Beppe, da sempre. Solo quel parvenu di Giuseppi poteva mettere in discussione questa legge non scritta. «Seicentesco» lo ridimensiona il fondatore. «La sua proposta è medievale» rintuzza l’ex premier. Conte dovrebbe però spostare in avanti il riferimento storico, per collocare il contendente nella Sicilia risorgimentale. Quella del capolavoro di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: tutto deve cambiare perché niente cambi.

Beppe è il Grillopardo. Finge di rifondare e invece vuole solo perpetrare. O, addirittura, restaurare. Richiamando in servizio persino Davide Casaleggio, figlio del vecchio sodale Gianroberto ma inviso agli eletti. Come il principe Fabrizio rinchiuso a Palazzo Salina, l’ex comico assiste alla sua inesorabile decadenza. Quella politica, soprattutto. Il Movimento, rispetto a tre anni fa, dimezza le sue fortune: dal 33 al 16 per cento. Non ha più nessuna coerenza, se non l’esasperato attaccamento al potere: prima sparring partner in un governo di centro destra, poi di sinistra, infine istituzionale. E i parlamentari, fiutata l’apocalisse, tra addii e guerriglie, sono sull’orlo del precipizio. Per non parlare dei patemi personali dell’Elevato: la maldestra e rabbiosa difesa del figlio Ciro, accusato di stupro assieme ad alcuni amici, rimane una macchia indelebile nei suoi già poco celestiali trascorsi.

Il Grillopardo, asserragliato a Villa Corallina, Marina di Bibbona, medita così su un futuro che deve replicare il passato. Confida nei cavilli che i sette hanno escogitato. Vuole ancora mani libere. Per fare e disfare. A dispetto di Conte. Sarebbe il terzo prescelto. Di Maio è stato capo politico da settembre 2017 a gennaio 2020: «Basta pugnalate» intima il giorno delle dimissioni. «I peggiori nemici sono quelli interni». Il destino però sembra già segnato, più luminoso di sempre. «È giunto il momento di rifondarsi, oggi si chiude un’era», annuncia Giggino. «Una volta nominati i facilitatori, il mio compito è terminato». Perché prima di dedicarsi a tempo pieno alla Farnesina, l’ex leader nomina nientemeno che il «team del futuro»: diciotto titani, da Alessandro Di Battista a Paola Taverna, che avrebbero dovuto rivoltare il Movimento. Idea scoppiettante. Tanto da essere replicata sul territorio, con la designazione di altri novanta facilitatori regionali.

Dopo qualche settimana, evaporato l’annuncio, si perde però ogni traccia di questo invincibile squadrone riformista. È l’ennesima supercazzola, insomma. Anzi: la solita gattopardata. Come la nomina del transitorio successore di Giggino: Vito Crimi. Doveva restare reggente fino agli Stati generali. Ovvero il primo congressone rifondativo, una delle più vetuste liturgie di quei partiti che i Cinque stelle speravano di soppiantare. I grillini però, quella volta, avrebbero fatto le cose alla grande, altroché: «Parole guerriere, nuovi obiettivi, progetti da realizzare». Raccogliere le proposte degli attivisti, discutere a puntino, elaborare il tutto in «un grande evento nazionale a marzo». Alla fine, i salvifici Stati generali vengono celebrati sei mesi più tardi: il 14 e il 15 novembre 2020. Con il solito risultato: zero carbonella. Come il Grillopardo sperava.

In compenso, Crimi resta supplente. Da diciassette mesi filati. Pregevole lasso di tempo in cui Beppe è riuscito a riscrivere, gabola dopo gabola, la storia dei Cinque stelle. Ancora a dispetto di regole, codici e volontà. Nel 2013, reduce dal trionfante Tsunami Tour, il fondatore è lapidario: «Noi entriamo in Parlamento e saremo una forza straordinaria, non pensino di fare inciucetti e inciucini. Gli altri faranno un governissimo “Pdmenoelle-Pdelle”. Noi stiamo fuori. Nel non-statuto, e negli impegni sottoscritti dai nostri neoparlamentari, sono esclusi in modo categorico accordi con i partiti». Ca-te-go-ri-co. Infatti, ad agosto 2019, con ammirevole autoironia, pubblica il post che cancella dieci anni di storia: «La coerenza dello scarafaggio». Scrive: «Mi eleverò per salvare l’Italia dai nuovi barbari». Ovvero i leghisti, con cui aveva fatto il primo governo Conte. Dopo il voto su Rousseau, nasce così l’esecutivo giallorosso. Il capo politico dell’epoca, Di Maio, è contrario al voltafaccia? Dettagli.

Con identica surplace viene superata l’avversione di Crimi al governo Draghi. Basta qualche post. SuperMario, dieci anni prima, era «il banchiere mai eletto da nessuno»? Tranquilli, cari militanti: nel mentre, s’è fatto grillino. Come del resto, Roberto Cingolani, ministro della Transizione ecologica, tema carissimo al Movimento. Per ratificare l’appoggio, basta l’ennesimo voto su Rousseau. Eterodiretto, come sempre. Perché la piattaforma di «democrazia diretta», che doveva fare solo la volontà degli iscritti, ha sempre ratificato ogni decisione del fondatore, pure la più inderogabile. E quando non l’ha fatto, il Grillopardo s’è adoperato per riscrivere transitoriamente le regole. Nel 2017 Marika Cassimatis viene indicata su Rousseau candidato sindaco a Genova. Ma la prescelta non è abbastanza ortodossa. Votazioni annullate. A dispetto di statuto, regolamento e codice etico. Per non parlare della promessa di morigeratezza, miseramente infranta a suon di inchieste e magheggi. L’11 agosto 2011, nel «Comunicato politico numero quarantacinque», Grillo rimarca: «Ogni eletto percepirà un massimo di 3 mila euro di stipendio, il resto dovrà versarlo al Tesoro, e rinunciare a ogni benefit parlamentare».

Preistoria. Adesso vige un nuovo regolamento «relativo al trattamento economico»: permette di intascare quasi tutti i 13 mila euro garantiti ogni mese ai parlamentari. E l’indissolubile regola dei due mandati? Pronta a venir stravolta pure quella, per garantire ai big pentastellati almeno un altro giro di giostra. Magari stavolta in compagnia di Giuseppi: evanescente leader per volontà dell’immarcescibile Grillopardo.

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