Dai manichini, presenze inquiete delle opere nella sua prima stagione metafisica, agli autoritratti, alle citazioni di maestri del passato – Michelangelo, Lotto, Velazquéz. E poi il dialogo con la modernità fino alla pop art. il lungo, articolato percorso del pittore ne dimostra la grandezza.
Possiamo dire che la prima metafisica di Giorgio de Chirico si chiuda con la dispettosa e crudele stroncatura di Roberto Longhi (Al Dio ortopedico), indirizzata proprio a irridere i manichini come negazione di un’umanità vera: «Spinta dalla sua mano di macchinista crudele, l’umanità orrendamente mutila e inesorabilmente “manichina”, attrezzata alla meglio sé medesima come un melanconico “cul-de-jatte” appare fra grandi stridori e cigolamenti sui vasti palcoscenici deserti, guardati a vista dai pesanti scatoloni dei casamenti pieni di caldo e di bujo. Ivi l’homo orthopedicus sgrana con voce di carrucola una sua parte impossibile alle statue diseredate della Grecia antica. Sotto il torbido smeraldo del cielo, che la pretende a Mediterraneo, i miti ellenici decapitati presentano credenziali alle statue di Cavour; le civiltà si riecheggiano; le ciminiere delle officine si allineano ai masti medievali, mentre Pirelli e Borso d’Este s’intendono al primo sguardo del loro unico occhio artificiale. Abita l’homo orthopedicus in appartamenti che, alla prima, credereste disabitati. Aule di scuole rurali in epoca di vacanze, docks sgomberati dopo le vecchie guerre, salvo le casse d’imballaggio dove Gondrand si è mummificato lentamente, stanze d’impiegato d’ordine dopo il sequestro della mobiglia migliore».
E da lì parte, da un De Chirico indiscusso capofila del ritorno all’ordine, uscendo dall’isolamento della propria meditazione, il dialogo con Valori plastici. L’adesione alla rivista d’arte, ignorando il dispetto di Longhi, ebbe anche effetti pratici: tutta (o quasi) la produzione del 1919-21 venne ceduta a Mario Broglio, direttore della rivista, che possedeva e in parte commerciava, fra le altre, opere di Carlo Carrà, Giorgio Morandi, Arturo Martini. Tra il 1918 e il 1919 si ricordano anche le prime mostre italiane, una collettiva nella galleria L’Epoca a Roma, nel maggio 1918; un’altra nel febbraio 1919 presso la galleria di Anton Giulio Bragaglia. Qui De Chirico espose opere del periodo ferrarese, presentandole con lo scritto Noi metafisici.
A partire dal 1920 si esibì nella serie straordinaria degli autoritratti. Dalla metafisica alla cronaca quotidiana. Il pittore tornerà sempre su questo tema, con nuove prospettive: l’autoanalisi allo specchio, la presenza di statue e ombre che indicano lo sdoppiamento della personalità, i «doppi ritratti» realizzati inserendo nella composizione altri volti (della madre, del fratello…); ed è costante la volontà di esaltare la propria immagine fino a trasformarla in mito. In questo periodo il De Chirico iniziò a parlare di «ritorno al mestiere». E mentre recuperava la tecnica «antica» della tempera, eseguì nei musei, alcune copie di capolavori della pittura italiana: il Gentiluomo con San Giorgio di Lorenzo Lotto (Roma, Galleria Borghese); il Tondo Doni di Michelangelo agli Uffizi, La gravida e La muta di Raffaello. Nel marzo 1922 Paul Guillaume espose a Parigi una vasta scelta di opere di De Chirico (dai primi dipinti di Parigi alle copie da Raffaello). L’ultima mostra comune del gruppo di Valori Plastici fu nello stesso anno di quella della Fiorentina primaverile. Infine, nel 1924, De Chirico espose per la prima volta alla Biennale di Venezia.
Il suo contributo alla nascita del «realismo magico» è dimostrato, oltre che dall’attenzione della critica tedesca, anche dall’amicizia con Massimo Bontempelli, suo corrispondente in ambito letterario. Ma questa corrente non fu la sola a discendere dalle invenzioni di De Chirico: siamo infatti nel tempo di formazione del Surrealismo, e l’attenzione dei suoi fondatori per De Chirico è documentata da precisi episodi: gli scritti euforici di André Breton sulla rivista Littérature, l’apprezzamento di Max Ernst, René Magritte, Yves Tanguy, René Crevel. Dal 1926, con l’adesione al Novecento italiano, il movimento di Margherita Sarfatti, si moltiplicarono le mostre: a Milano (1926), a Zurigo e in Olanda (1927) in Inghilterra (Brighton, 1926; Londra, 1928), negli Stati Uniti (New York, 1926 e 1928). Il repertorio di De Chirico appare arricchito di nuovi temi: cavalli in riva al mare, trofei e personaggi mitici, mobili ambientati in aperti paesaggi e, viceversa, paesaggi chiusi in piccole stanze; infine, i primi quadri con i gladiatori. Waldemar George (1928) scrive, in contrasto con i surrealisti: «…Il mistero si trasforma, prende un aspetto nuovo e sembra chiarirsi. Lascia forse il campo libero alla fredda ragione? No. Questo contatto con il mondo non ha fatto altro che renderlo più impenetrabile».
L’impegno di De Chirico si dipanò anche in altri campi: il romanzo Hebdomeros, grande prova della letteratura surrealista, esce nel 1929. Tra i capolavori dell’illustrazione di quegli anni vanno poi ricordate le tavole per i Calligrammes di Guillaume Apollinaire (1930). Preziose anche le collaborazioni teatrali (scene e costumi per Le Bal per i Balletti russi di Sergej Diaghilev con la coreografia di George Balanchine, a Montecarlo, Parigi, Londra e Berlino, 1930). Intanto cresceva la polemica con i surrealisti che, nel 1928, pubblicarono opere di De Chirico con titoli apocrifi, suscitando lo sdegno dell’artista. Nel momento in cui anche il mercato artistico fu coinvolto dalla crisi del 1929, De Chirico era all’apice del successo, con opere in molti musei europei e statunitensi.
All’inizio degli anni Trenta incontrò Isabella Far, che sposò a Firenze durante la guerra e fu la sua compagna per il resto della vita. È del 1932 il dipinto a lei dedicato dove appare nuda come una Venere classica: con straordinaria purezza De Chirico ha armonizzato Tiziano e Renoir. L’opera, ora in collezione Valsecchi, sbaraglia le avanguardie contro ogni intellettualismo, scegliendo l’esercizio della bella pittura come risarcimento di una tradizione dimenticata. È l’inizio – fuori dal surrealismo, del realismo magico, e dello stesso Novecento che si era orientato verso la visione drammatica di Sironi e l’approfondimento psicoanalitico di Malerba – di un nuovo e intatto classicismo che de Chirico perseguì fino al delirio, contaminando, anche in forza di citazioni compiaciute e narcisistiche, la purezza assoluta del ritratto della moglie.
Scavalchiamo circa vent’anni della produzione del pittore, il periodo di cui adottò mille travestimenti, per arrivare al suo Autoritratto nudo del 1945. È di ispirazione classica, dalla statuaria antica, e moderna, dal Marte in riposo di Velázquez; ed è un esempio di libera pittura. Dodici anni dopo il pittore maturo si immortalerà con un pullover nero in una rassicurante autorappresentazione borghese. È un uomo che pensa, e pensa anche a quello che ha fatto fin lì. Eccolo allora riabilitare uno spazio interno, propriamente metafisico, con un manichino pittore (Il poeta e il pittore, 1975). Tutto l’immaginario degli anni Dieci si rianima dentro di lui. Da questo mondo di sogni escono nuove e fresche invenzioni come Il segreto del castello, ll triangolo metafisico (con guanto), La frutta con busto di Apollo, Piazza d’Italia con statua di Cavour, Il sole sul cavalletto.
È il periodo in cui Lucio Del Pezzo elabora pannelli geometrici monocromi, sui quali sono inserite mensole o scavate concavità, che sostengono oggetti geometrici regolari (birilli, uova di legno, bocce, manichini), a volte molto colorati. Per la ripresa di oggetti d’uso quotidiano decontestualizzati, tali opere rimandano alla Pop Art; ma è palese la ripresa dal Giorgio de Chirico delle geometrie della pittura metafisica. Un giovane artista negli anni Sessanta/Settanta sente l’attualità del vecchio maestro. Che non si fa attendere, e risponde con queste opere nuove, fondate sulla riabilitazione di un repertorio che non può più essere ristretto al secondo decennio del Novecento.
Contaminazione e invenzione presiedono l’ispirazione di questi dipinti. Ed è altrettanto evidente in composizioni come Le muse della lirica dove De Chirico dietro un sipario accrocchia sagome recuperate da Mario Ceroli – come il Balcone del museo Carandente, del 1966, o l’Aria di Daria, del 1968 – con una freschezza che rigenera la stessa creatività dei più giovani maestri. E anche quando guarda le sue stesse prime composizioni, come nell’Interno metafisico con officina e nell’Interno metafisico con profilo di statua, il risultato è di una tale, originale e rigorosa riorganizzazione e moltiplicazione delle componenti, da stabilire una euforia visiva che non ha l’eguale nei pittori giovani attivi negli stessi anni.
Dipinti come Il rimorso di Oreste e Il ritorno al castello introducono poi invenzioni oniriche e giocose: «sagome nere» frastagliate come ombre minacciose. Ma i documenti pittorici di più evidente innovazione sono Sole sul cavalletto, Offerta al Sole, dove De Chirico inventa per il Sole (e anche per la Luna) una accensione artificiale attraverso il filo della luce elettrica: una creazione unica, travolgente, spiritosa, che sembra trasferire nella pittura i paradossi linguistici e le trovate sorprendenti di Achille Campanile. È un mondo colorato, ironico, nuovo, che si rispecchia, nello stesso momento, nei Bagni misteriosi, nel giardino del Palazzo della Triennale, a Parco Sempione, a Milano, con tutti i relativi e coevi dipinti.
De Chirico doppia la Pop Art e si allinea, non rinunciando alla grande tradizione quattrocentesca che li accomuna, a Domenico Gnoli, come lui illustratore e pittore. Proprio in sintonia con l’ultimo De Chirico, nel 1968, Gnoli crea il Modern Bestiary. Da qui, dalla generazione degli artisti nati negli anni Trenta (Del Pezzo-Ceroli-Gnoli), occorre ripartire per capire l’originalità della neometafisica di De Chirico tra il 1960 e il 1975.
