Ottant’anni fa Benito Mussolini dichiarava l’entrata del Paese nel conflitto mondiale. La realtà era quella di un esercito del tutto impreparato e di una strategia tanto arrogante quanto perdente.
«Ho fatto pervenire la dichiarazione di guerra alle ambasciate di Inghilterra e di Francia». Dal balcone di piazza Venezia, Mussolini annunciò che alle 17 e 30 (del 10 giugno 1940) il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano le aveva personalmente consegnate a André François-Poncet e a Percy Loraine. L’Europa già stava combattendo da un anno. Con qualche mese di ritardo, anche l’Italia si diceva pronta a imbracciare le armi per giocarsi le sue ambizioni nel conflitto e lo faceva ribaltando le alleanze stipulate nel primo conflitto mondiale.
Una ventina d’anni prima – nel 1915/1918 – era schierata contro Austria e Germania e questa volta a favore. L’annuncio avvenne secondo la liturgia che il regime fascista aveva consolidato. Mussolini, come suo costume, recitò la sua parte, scandendo le sillabe e muovendo a ritmo la mano come fosse stato il direttore d’orchestra che dirigeva se stesso. Quel discorso risulta fra i più citati e, tuttavia, fu anche fra i più modesti. Si limitò a un collage di rivendicazioni. Prima: «Vogliamo spezzare le catene che ci soffocano nel nostro mare». Poi: «Questa è la lotta dei popoli poveri e numerosi». E, ancora, l’accusa alle «demoplutocrazie occidentali» che affamavano i deboli. Per ultimo, il grido di battaglia: «Dobbiamo vincere!».
Quel giorno tutto apparve falso: i toni di sfida e gli accenti eroici. Falso l’entusiasmo e false le ovazioni che accompagnarono le sue frasi. Da decenni, stavano tutti inquadrati militarmente ed esibivano con alterigia mostrine e patacche gerarchiche ma nessuno si sognava di combattere per davvero. Se proprio occorreva affrontare una guerra, immaginavano di farlo con atteggiamento decorativo. Non ci furono domande di arruolamento volontario e le cartoline-precetto che richiamarono i contingenti in servizio vennero accolte con fastidio.
L’Italia che avrebbe fatto a meno della Prima guerra mondiale non aveva cambiato idea quando si trattò di affrontare la Seconda. Contraddittorie anche le motivazioni che portarono al conflitto. Per un verso, sembrerebbe che Mussolini volesse approfittare della straordinaria spallata con la quale i tedeschi di Hitler avevano messo in ginocchio gli avversari.
Il duce voleva un pizzico di gloria, a costo di sacrificare qualche migliaio di uomini che potevano valere un posto in prima fila al tavolo della pace. Al vertice dell’esercito, il generale Pietro Badoglio confortò questa previsione. Però, pochi minuti prima di pronunciare il suo discorso, Mussolini telefonò alla «Camilluccia» per parlare con Claretta Petacci che era la sua amante ufficiale. Rispose Myriam, la sorella minore, che raccolse, per prima, le confidenze del capo del fascismo. «Fra poco» anticipò «annuncerò la guerra. Sono costretto». La ragazza sollecitò una previsione ottimistica: «Ma sarà breve…». «No» obiettò il duce «non meno di cinque anni».
Gli storici non sono in grado di stabilire se il Mussolini sincero fosse quello di casa Petacci o degli uffici dello Stato Maggiore. Resta il fatto che i reparti che si avviarono verso il fronte mancavano di tutto. Quello italiano era l’esercito più scalcinato dell’Occidente e, nel 1940, messo peggio di quello che combatté, in inferiorità, durante la Prima guerra mondiale. I quadri dei vertici militari o erano rimasti quelli, più vecchi d’età, più anchilosati nelle idee e più indisposti ad aggiornarsi, o erano giovani ma solo sulla carta perché avevano imparato a calzare scarpe lucide e a salutare con compostezza però ignoravano i principi delle artiglierie e i sistemi di difesa.
Gli arsenali erano vuoti. A dispetto dei cingolati che, durante le innumerevoli manifestazioni sfilarono davanti al duce, non esistevano i mezzi per affrontare un conflitto delle dimensioni che si stavano proponendo. Per questo, l’anno precedente, nel 1939, la «neutralità» sembrò una scelta prudente anche se obbligata dalle circostanze. Ma si trattò soltanto di una manciata di settimane di tranquillità in più. Mussolini voleva la guerra fascista. In un promemoria per i vertici dello Stato e del partito sponsorizzò la necessità di combattere. «L’Italia non può rimanere neutrale per tutta la durata della guerra, senza ridursi a una Svizzera moltiplicato per dieci». Nessuna alternativa. «Non si tratta di sapere se entreremo o non entreremo in guerra. La questione è indicare quando…».
«La nostra preparazione» secondo un appunto del generale Badoglio del 6 aprile «è al 40 per cento». In quel «40 per cento» di Badoglio era compreso un cannone da 70 millimetri «con una formidabile capacità di penetrazione» che, però, esisteva solo come prototipo di carta… La marina non disponeva di radar e nemmeno di portaerei perché l’Italia, «così allungata nel Mediterraneo, rappresentava una portaerei naturale». Con il risultato che, a dispetto dei principi basilari di collaborazione militare, chi andava per mare non sapeva chi volava e chi si muoveva in aereo non conosceva la posizione delle navi. E, per la verità, tanto i piloti quanto i nostromi, già all’inizio del conflitto, governarono mezzi con metà carburante nei serbatoi.
Addirittura le camicie non bastavano per assicurare un ricambio adeguato a tutti i soldati. Ma se il conflitto stava per concludersi con la definitiva vittoria di Berlino, il problema della preparazione dell’esercito italiano passava in secondo piano. Il duce aveva fretta. Per l’annuncio della belligeranza fu scelto l’11 giugno di quel 1940 ma, all’ultimo momento, anticiparono al 10. Nessun problema per i comandi militari. Il loro piano strategico consisteva nel non far niente e un giorno in più o in meno d’inerzia cambiava poco. I vertici dell’esercito entrarono in guerra con il proposito di non farla. Ordine del giorno: «È intendimento riservare le forze armate per avvenimenti futuri».
Dunque, tutti con lo schioppo al piede in posizione di «vigile attesa». Le unità schierate sul confine delle Alpi occidentali, contro la Francia, seppero che «non dovrà essere intrapresa alcuna azione oltre la frontiera». Mentre le armate tedesche calavano su Parigi, il comando italiano ritenne che potesse bastare una scaramuccia «di posizione». Passarono alcuni giorni e venne disposto un movimento di truppa. Più precisamente: «Piccole operazioni offensive» per facilitare «sbocchi di più grande portata» ma ancora molto di là da venire. Parigi schiantò. Philippe Pétain si vide affidare i pieni poteri con l’esplicito compito di sanzionare la disfatta.
Lo «scoppio della pace» mise in difficoltà Mussolini. Il duce ottenne che l’armistizio franco-tedesco avvenisse dopo la stipula dell’armistizio franco-italiano. Ma occorreva prima la guerra. Perciò, ordinò di attaccare per conquistare qualche chilometro quadrato di terreno al di là delle Alpi. Organizzarono le operazioni per il 21 giugno. Poi, per le proteste del generale Pietro Pintor, si rinviò al 22.
Il comando in capo venne affidato al generale Rodolfo Graziani che dispose il suo quartier generale nel vagone di un treno, parcheggiato su un binario morto, fra Bra e Alba. Due armate, poderose sul piano numerico ma senza un briciolo di preparazione, entrarono a Mentone ma non riuscirono a occupare Nizza. Pochi contingenti francesi, sfiduciati per le notizie del loro Paese che andava in rovina, tennero testa a 22 divisioni, con 12 mila ufficiali e 300 mila uomini.
In seguito, il generale Emilio Faldella tentò di minimizzare col dire che «sarebbe un errore sostenere che si svolse una battaglia». Secondo lui «avvennero delle azioni preliminari, definibili tecnicamente come prese di contatto». Che costarono 631 morti, 2.631 feriti e 616 dispersi. I francesi lamentarono 37 morti e 42 feriti. La guerra dell’Italia poteva riscuotere successo in Africa settentrionale dove la Quinta armata del generale Italo Gariboldi non trovava rivali. Il crollo della Francia lasciò senza difese Tunisia, Marocco e Algeria.
Nemmeno la Gran Bretagna, in Egitto, sarebbe stata in grado di opporre chissà quale resistenza. Il comandante Archibald Wavell disponeva di solo 40 mila soldati inglesi, rinforzati da 15 mila indiani e 8 mila neozelandesi. Il vero ostacolo fu rappresentato dalle distanze che, nel deserto, risultarono anche più disagevoli. Come coprire migliaia di chilometri, nella sabbia, senza autocarri? Credettero di risolvere l’inconveniente con la distribuzione di «piccole salmerie di asinelli locali». Anziché scioglierlo, il problema si aggravò. Gli animali non necessitavano di benzina ma non potevano fare a meno dell’acqua.
Di conseguenza – parola del generale Mario Roatta – «anche questo arcaico palliativo venne abbandonato». Lasciando i reparti immobili, nelle dune.
