Un episodio di cronaca finito con il suicidio di chi è stato messo dall’ennesima gogna virtuale. È tempo di cercare realtà fuori dalla Rete.
Qualche tempo fa mi hanno cancellato da X, l’ex Twitter. Era il social che frequentavo di più per comunicare brevi pensieri e messaggi. Leggevo anche i commenti, tastavo gli umori. Non so perché a giugno hanno rimosso il mio profilo. Sono rientrato, faticosamente, dopo mesi di tentativi vani. Mi hanno rimosso di nuovo. Forse un tentativo di hackeraggio, forse una richiesta di dati cui ho risposto male. Non ho ancora capito. Ma ho deciso di starmene fuori per un po’. Da diverse settimane, dunque, vivo praticamente in astinenza da social. Faccio qualche video, che i miei collaboratori mettono su Instagram o Facebook. Ma non ci entro più. Non compulso le tendenze. Non conto i like. Non mi faccio avvelenare dai post altrui. E vi confesso che vivo decisamente meglio.
Proprio così: l’astinenza dai social fa vivere meglio. E forse può pure salvare la vita. Non ho potuto fare a meno di pensarci quando il nume tutelare del grillo mi ha sottoposto una notizia che, per la verità, mi aveva già assai colpito: quella dell’imprenditore 78enne di Agrigento, Alberto Re, che si è ucciso sparandosi con una vecchia pistola di famiglia in seguito a una campagna social scatenata contro di lui dai soliti odiatori da tastiera. Re aveva organizzato, mosso soltanto dalla passione, una rassegna cinematografica nella sua città. L’inaugurazione era prevista per lunedì 18 novembre ma il teatro Pirandello, prestigiosa sede dell’evento, è rimasta vuota. Nemmeno uno spettatore. Cattiva comunicazione? Programma scadente? Non è dato sapere. Di fronte al fallimento, però, i social hanno scatenato la gogna. L’imprenditore non ha retto. E si è tolto la vita.
«Mio padre era solido», ha raccontato al Corriere della Sera la figlia Natalia. «Non aveva problemi economici. Ma era uomo d’altri tempi, uno che faceva ancora il baciamano alle donne e s’inchinava davanti a un sacerdote. Quello che per noi è la norma, cioè i toni oltraggiosi, le parole sfottenti, le critiche disumane, che sui social sono consueti, per lui che non conosceva questo mondo erano inaccettabili. Per altro era lì a dare una mano, visto il suo curriculum, e lo faceva gratis. Pensate che effetto gli ha fatto leggere i commenti di chi l’ha accusato di aver lucrato sulla manifestazione o di sperpero del denaro pubblico. Era una realtà per lui incomprensibile. Le parole lui le pesava».
Ecco: forse di fronte a questa tragedia è venuto il momento di chiedersi quand’è che abbiamo smesso di pesare le parole. E quand’è che abbiamo dato tutto questo potere ai rancorosi senza cervello. Perché è vero che i cretini ci sono sempre stati. «Si resta sempre stupiti da quante persone si rivelano inequivocabilmente e irrimediabilmente stupide», scriveva Carlo Cipolla nel 1988, quando non c’erano ancora né Facebook né Instagram. E del resto la teoria della «prevalenza del cretino» di Fruttero&Lucentini non è nata con Internet ma risale al 1985. Una volta, però, i cretini prevalevano al massimo al bar. Ora, con Internet, s’infilano dentro ogni spazio della nostra vita. Sempre più violenti. Sempre più estremisti. Anche perché una volta, per chiedere la testa di qualcuno bisognava per lo meno alzarsi, uscire di casa e andare sotto la reggia di Versailles con un forcone in mano. Ora, invece, il forcone lo si mostra restando comodamente sdraiati sul divano. Senza rischiare nulla.
Così la smania di indignazione vince sempre. Ci si indigna per tutto. Ci si indigna per la starlette che mangia carne. Per l’attore che non pulisce casa. Per lo scrittore che sbaglia un accento. Non importa per cosa: l’importante è che ci sia qualcuno su cui scaricare la propria frustrazione. L’importante è che ogni giorno ci si sia una nuova vittima su cui versare la propria bile. Poi domani ci si dimenticherà l’indignazione di oggi, come oggi ci si è dimenticati l’indignazione di ieri. Ma lì, in quel momento, quando si scatena la tempesta di cacca (shit storm) è difficile riuscire a resistere. Soprattutto per le persone più serie, quelle che non sono abituate alle volgarità. Quelle che, magari, fanno ancora il baciamano.
Perciò sono qui a farmi una domanda. E la domanda non è quella che vi aspettate, e cioè «come si può mettere un freno a tutto ciò?», perché è chiaro che mettere un freno non si può. Il mondo dei social è questo, l’abbiamo lasciato crescere, gli abbiamo dato le chiavi del nostro cuore, della nostra comunicazione e dell’informazione, i loro proprietari sono ricchi, potenti (più potenti degli Stati) e non si possono fermare. La vera domanda è: vale la pena starci ancora dentro? I miei giovani collaboratori, per esempio, dicono che oggi non è proprio possibile stare fuori dai social. E forse hanno ragione. Eppure, vi garantisco, senza social si sta così bene…
