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Lungo la linea di Giotto

Lungo la linea di Giotto

Da Carrà a De Chirico, da Rosai a Morandi e, ancora, fino all’arte degli anni Ottanta. Attraverso la grande pittura del secolo scorso si può seguire la chiara traccia del maestro del Trecento. Che è geometrico e metafisico, moderno oltre il tempo.


Nessuno è invasivo e pervasivo come Giotto che, quasi più di Picasso, influenza e contamina due terzi dell’arte novecentesca. E proprio pronunciando, «Novecento», e pensando al gruppo sostenuto da Margherita Sarfatti, si sente la presenza di Giotto in almeno due dei grandi maestri del gruppo, Mario Sironi e Arturo Martini, prevalenti anche in questa esposizione che apre al Mart di Rovereto. Il primo che affronta Giotto, nell’arte e nella pagina, è Carlo Carrà, che scrive la monografia sul pittore, per la collana Valori plastici, nel 1924.

Già durante la Grande guerra Carrà si mette a studiare Giotto e Paolo Uccello. Per Massimo Carrà, il figlio del pittore, si tratta di «aspirazioni diverse, riferibili a un fortissimo desiderio di identificare la propria pittura con la storia, e specialmente a recuperare il «tempo storico” dell’arte italiana, cioè a stabilire un possibile raccordo tra modernità e lezione storica». Nel 1915 Carrà rompe definitivamente con il Futurismo. Nel 1916 ha una fase neoprimitivista, nel corso della quale affronta, come osserva Elena Pontiggia, «la questione del rapporto fra arte e originarietà, come tra la creatività artistica e lo stupore tipico dell’infanzia, ripensando al Doganiere Rousseau, ma anche ai “primitivi” di ogni tempo», perché «Rousseau è per lui il prototipo del primitivismo, che però sa amalgamarsi con la sapiente reminiscenza di Giotto e di Paolo Uccello, i maestri cui dedica in quell’anno nevralgico scritti fondamentali».

Richiamato sotto le armi, nel 1917, Carrà è ricoverato nell’ospedale psichiatrico di Ferrara. Qui incontra Giorgio de Chirico, qui ha inizio la sua stagione metafisica. I campioni cui fare riferimento, per raggiungere un’astrazione della forma, non possono che essere loro: Giotto, Paolo Uccello, Masaccio, Piero.

Osserverà, nel 1955, lo studioso tedesco Werner Haftmann: «Carrà toglie alla forma di Masaccio tutto ciò che è aneddotico, torna a semplificarla nel senso dell’arcaico, fino alle forme fondamentali di Giotto, da cui lo stesso Masaccio era partito. Mentre la pittura metafisica non era ancora completamente libera da “invenzioni” poetiche e formali, negli anni che seguirono il 1920 Carrà sviluppa la forma completamente dall’oggetto, con l’aiuto delle solenni astrazioni formali degli antichi fiorentini. Nella sua propria personalità umana vi è qualcosa della severa gravità e dell’arcaico candore che costituiscono la “primitiva” grandezza di quelli. Così, tutta l’arte di Carrà vive del desiderio di definire a sé stessa, mediante un’arcaica semplificazione, la grandezza essenziale delle cose. (…) Per questo, nei quadri di Carrà, regna un così grande senso di pace». Già nel 1919 Giotto è tutto nel dipinto Le figlie di Loth, un ritorno all’ordine prima che sia dato, con il Fascismo e con la Sarfatti, l’ordine del ritorno a uno stile che sarà l’inizio della fortuna di Giotto nel Novecento.

L’idea iniziale della curatrice, Alessandra Tiddia, dopo la triade Carrà-Martini-Sironi, si allungava in artisti alti, verso esiti ambiziosi, in cui l’influenza di Giotto si trasfigura fino alla cifra allusiva di Henri Matisse e di Serge Poliakoff, fino alla trasposizione intellettuale di Melotti e Fontana, fino alla astrazione di Albers, Rothko e Klein. Le geometrie di Giotto lo consentono. Ma la penetrazione di Giotto fu più sottile e pervasiva nel Novecento, almeno quanto lo fu nel Trecento. Giotto è la grammatica e la sintassi del Novecento. A testimoniare l’attualità di Giotto è poi uno scultore come Arturo Martini, che scrive nel 1920: «Caro Casorati, ti mando un saluto da Firenze dove sono venuto oggi a respirare un po’ d’aria pura. Non avevo mai goduto con tanta intensità Masaccio, Giotto, Gaddi e Ghirlandaio. Pare d’essere trasportati in tutt’altro mondo, hanno dipinto le più belle poesie. Quanta impotenza… nei movimenti d’avanguardia».

La spina dorsale della mostra, ai tre grandi maestri, allega il più grande, pittore di tutte le epoche, da Giotto a Rubens: Giorgio de Chirico. Per lui Giotto è lo svelamento del mistero cosmico nella pittura metafisica, inaugurata da L’Enigme d’un Après-midi d’Automne, del 1910. De Chirico è, come sempre, prima di Carrà, nella pittura, anche se soltanto nel 1920 lo spiegherà nell’articolo «Il senso architettonico nella pittura antica» sempre in Valori plastici: «In Giotto il senso architettonico raggiunge alti spazi metafisici. Tutte le aperture (porte arcate, finestre) che accompagnano le sue figure lasciano presentire il mistero cosmico… e le prospettive delle costruzioni si innalzano prive di mistero e presentimenti agli angoli celano dei segreti, l’opera d’arte non è più l’episodio asciutto, la scena limitata negli atti delle persone figurate ma è tutto il dramma cosmico è vitale che avviluppa gli uomini e li costringe entro le sue spirali; ove passato e futuro si confondono…».

Così di questa mostra, nell’avventuroso percorso antico/moderno, inaugurato con Caravaggio, mi sono appassionato, avvertendo che un’aria di Giotto si agitava in tutto il Novecento, anche in angoli nascosti. Facile allora, dopo De Chirico, arrivare ad Arturo Nathan; e, intanto, come non ritrovarlo in Ardengo Soffici, in Primo Conti, in Campigli, in Franco Gentilini, in Salietti, in Ferrazzi, in Ubaldo Oppi, in RAM, in Gigiotti Zannini, in Carlo Bonacina, in Renato Paresce, in Pietro Morando, in Riccardo Francalancia, in Gianfilippo Usellini, in Ottone Rosai, e nell’intera impresa di Gisberto Ceracchini?

Una vera rivelazione è Pietro Gaudenzi nello spazioso Trittico del grano, che vinse il premio Cremona nel 1940. Ed eccomi allora a suggerire una quantità di artisti che si sono affiancati a quelli previsti nel disegno generale, stravolgendolo. E cosi, ai neoprimitivi Severini e Garbari, sulla via del sacro, in una rinnovata fede medievale, ho voluto affiancare Pompeo Borra e alcuni dimenticatissimi scultori come Carlo Bonomi, che costeggia solenne Novecento, l’elegante e sintetico Quirino Ruggeri, il popolare Raffaello Consortini, i dimenticati meridionali Benedetto D’Amore di Matera e Gaetano Martinez di Galatina, con i suoi teatrini. E come non ritrovare Giotto nel primo tempo di Virgilio Guidi, in Giuseppe Gorni pittore e scultore mantovano, in Giuseppe Biasi di Teulada, in Francesco Falcone, in Cagnaccio di San Pietro, in Alessandro Pandolfi, in Carlo Minelli, e perfino in Leo Longanesi. Anche Enzo Morelli discende direttamente da Giotto. Anche Gastone Celada.

È un percorso stabile, costante, all’apparenza interrotto dall’arte astratta, che trova però anche in Giotto suggestioni geometriche, come vediamo nell’opera di Attanasio Soldati e di Antonio Calderara. Il primo documentario su Giotto di Luciano Emmer è del 1939, mentre negli anni Settanta su Giotto riflette Pasolini. E Giotto ritorna, dopo gli anni Ottanta, come un riferimento stabile e diretto, in Salvo, in Lorenzo Bonechi, in Raimondo Lorenzetti, in Simone Turra. Lampi, suggestioni, emozioni che nutrono questa grande mostra, facendo sentire in lingua, e talvolta in dialetto, la parlata moderna di Giotto.

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