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Pansa, mai dalla parte dei vincitori

Pansa, mai dalla parte dei vincitori

Esce un libro di Giampaolo Pansa, a lungo firma di Panorama, scomparso due anni fa. Un volume importante per inquadrare la lettura da cronista-storico che ha fatto del lato oscuro della Resistenza nel suo «Ciclo dei vinti». Con lo sguardo coraggioso che, oggi come mai, ci manca.


Questo libro è nato vedendo, ancora oggi, Giampaolo alla scrivania». Adele Grisendi Pansa chiude gli occhi e ripercorre in un battito 30 anni di vita accanto al grande giornalista scomparso due anni fa. «Quando è mancato abbiamo definito con Rizzoli un progetto per tenere viva la sua voce e dopo il libro fotografico (Il sangue degli italiani. 1943-1946, ndr) abbiamo deciso di rimettere a posto le sue idee e il suo lavoro sulla storia». Il risultato è il volume Non è storia senza i vinti, uscito il 15 febbraio nelle librerie, che ripercorre il tortuoso cammino intrapreso da Pansa verso la verità attraverso vicende livide e atroci, quelle delle tragiche vendette partigiane dal 1945 al 1948. La memoria negata della guerra civile.

Vinti, guerra civile. Ancora oggi bastano tre parole per entrare nel cuore della polemica politica, perché nella narrazione della vulgata di sinistra chi ha perso non ha diritto di voce e la Resistenza non fu una guerra civile, ma un eroico cammino minoritario verso la rivoluzione socialista, «interrupta» nel dopoguerra da Alcide De Gasperi e dagli americani.

Scardinare i luoghi comuni era impossibile, a livello mediatico il pensiero unico era impenetrabile. Poi arrivò un giornalista della capacità di Giampaolo Pansa. Questo libro concentra in 300 pagine la genesi, il percorso, le storie, le guerre ideologiche, le presentazioni negate, le solidarietà forti o annacquate, le amicizie evaporate al tempo dei volumi I figli dell’Aquila e Il sangue dei vinti.

Tutto questo per far passare un concetto relativamente semplice in democrazia, riassunto da Pansa con una sintesi lapidaria: «Ho soltanto seguito il mio desiderio di verità. Perché quel che ho visto da bambino, e non ho più dimenticato, mi ha insegnato che la storia è bugiarda se non parla anche degli sconfitti». Un principio nato nel retrobottega del negozio da modista (comunista) della madre nella Casale Monferrato degli anni della guerra, quando la curiosità per gli esseri umani e le loro vicende in quel periodo così sanguinoso, forgiò il carattere di un bambino di otto anni che più volte ripeterà: «Se solo avessi avuto qualche anno in più avrei fatto il partigiano».

Ecco, il suo revisionismo non nasce dalla produzione saggistica in età adulta; non trova terreno fertile solo nella naturale diffidenza davanti a ogni conformismo. Ma prende corpo al tempo della formazione civile perché «si può parlar male di Garibaldi proprio perché gli si vuole bene». E perché, da eccezionale cronista qual era, non si è mai rifiutato di guardare l’altra metà della Luna.

Quando Giampaolo comincia a scavare nel silenzio degli sconfitti; quando riceve lettere (più di 20 mila) da famiglie con parenti trucidati dai partigiani rossi a guerra abbondantemente finita, Adele coglie immediatamente il problema. Gli dice: «Eccoci all’inizio di una strada pericolosa». E lo accompagna giorno dopo giorno in quella ricerca destinata a riempire un vuoto nella storia del Novecento italiano. Pansa rivelerà che il formidabile titolo Il sangue dei vinti era di sua moglie.

«Allora era un mal di testa perché eravamo costantemente sotto pressione, avvolti da un continuo ragionare sulle reazioni che stavano suscitando i libri e sull’impianto di quelli nuovi in cantiere. Lo spirito di Non è storia senza i vinti è ripercorrere quel periodo attraverso i materiali che Giampaolo ha lasciato. Ha sempre tenuto articoli e interviste, insieme li abbiamo archiviati. Ho selezionato ciò che ritenevo importante per far comprendere il suo ragionamento».

Così brillano pepite come gli interventi di Francesco Cossiga, l’intervista a Marcello Pera da presidente del Senato, l’invettiva di Giorgio Bocca «perché esprime bene la rabbia di una parte dei suoi contestatori. E Giampaolo non avrebbe mai nascosto o censurato i suoi contestatori». Fra gli scritti ce n’è uno di Edmondo Berselli, sopraffino saggista progressista senza fette di salame sugli occhi: «La guerra di liberazione vista dall’altra parte non viene guardata come una lotta ideologica, condotta da bande di fascisti invasati, briganti e assassini; è l’epopea partigiana che viene analizzata senza nascondere nessuna delle viltà, delle discordie, dei tradimenti compiuti da quelli della parte giusta. Alla fine è un corpo a corpo continuo».

Allora era un mal di testa. E oggi, Adele Grisendi? «Oggi è un mal di cuore perché Giampaolo mi manca. Siamo stati entrambi grandi peccatori ma abbiamo avuto una fortuna che difficilmente capita: abbiamo vissuto due vite, una prima di noi e una dopo». Ora il suo obiettivo è far riscoprire il maestro di giornalismo che è stato: i personaggi della politica, le truppe mastellate, i congressi con il binocolo. E poi i reportage sul terrorismo, l’epopea del «cancello 11» di Mirafiori, l’assassinio di Carlo Casalegno. Senza sconti, senza belletti moralistici. Perché, come diceva Pansa, «la forza della memoria è tutto».

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